“Contro il femminismo bianco”: Appunti per un cambiamento radicale, di Rafia Zakaria

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Contro il femminismo bianco è il nuovo libro di Rafia Zakaria, Appunti per un cambiamento radicale,
tradotto da Alessandra Castellazzi per add editore.

Le donne bianche sono state per lungo tempo le “esperte” di femminismo: hanno presieduto organizzazioni internazionali e scritto molto di ciò che, ancora oggi, viene considerato il canone femminista. Questa visione ha definito uno spazio di potere bianco-centrico che ha escluso dal racconto e dalla definizione di sé buona parte delle donne del mondo. Dalla tesi coloniale secondo cui tutte le riforme vengono dall’Occidente alla condiscendenza del “complesso degli aiuti” sino alla liberazione sessuale come “somma totale dell’empowerment”, le femministe bianche hanno modellato bisogni e richieste a propria immagine e somiglianza.

“Lo spazio spropositato che la bianchezza ha occupato va ripopolato con racconti di altri femminismi: quelli che sono stati soppressi o cancellati dalla dominazione coloniale e dal silenziamento bianco, quelli che sono stati eclissati dalla noncuranza, passata e presente, del privilegio bianco”.

Rafia Zakaria è un’avvocato, filosofa politica, giornalista e autrice pakistana-americana, propone un paradigma diverso, una ricostruzione del femminismo che faccia entrare le donne non bianche nel dibattito e che rappresenti desideri e consapevolezze non guidati dalla prospettiva, subdola e spesso malcelata, della bianchezza.


Rafia Zakaria è editorialista di Dawn News. Ha scritto per The Nation, Guardian Books, The New Republic, The Baffler, Boston Review e Al Jazeera

Zakaria, scrittrice dal cuore caldo e dagli occhi acuti, ridefinisce il termine “femminismo”, una parola vecchia e piena di donne bianche che urlano per le cose. Kerri Arsenault

“Ricco e appassionato, il saggio tagliente e salutare di Rafia Zakaria espande e affina le nostre idee di libertà, giustizia ed equità”. Pankaj Mishra

Leggi estratto:


INTRODUZIONE


UN GRUPPO DI FEMMINISTE AL BAR

È una calda sera d’autunno e mi trovo con altre cinque donne in un bar di Manhattan. L’atmosfera è allegra e cordiale. Due sono scrittrici e giornaliste, come me, le altre lavorano nei media e nell’editoria. Tutte, tranne me, sono bianche. Sono felice di essere stata invitata, stasera voglio fare una bella impressione e diventare amica di queste donne che ho conosciuto solo nella sfera professionale, al telefono o per email.

Il primo ostacolo si presenta quando il cameriere viene a raccogliere gli ordini. «Dividiamoci una brocca di sangria!», dice una. Le altre concordano entusiaste e si girano verso di me, cercando il mio assenso. «Sto prendendo delle medicine ma prego, ragazze, fate pure, berrò indirettamente attraverso di voi», dichiaro con un sorriso la cui ampiezza serve a nascondere il disagio, mio e loro. È la verità, ma mi vergogno a dirla. Sanno che sono musulmana e le immagino chiedersi subito se io non sia troppo rigida per far parte del loro gruppo. «Non è una questione religiosa», aggiungo quando il cameriere se ne va, «non avete idea di quanto vorrei un bicchiere in questo momento.» Risate. Adesso temo che le risate siano forzate e che l’audizione per ammettermi nel gruppo sia già conclusa.

Il secondo ostacolo si presenta un po’ più tardi, quando la sangria ha ammorbidito tutte tranne me, e al tavolo le donne cominciano a raccontarsi storie più intime, a legare, così come ci si aspetta nelle calde sere d’autunno nei bar di Manhattan. Lo sento arrivare quando una delle donne, una rinomata autrice femminista, mi guarda maliziosa. «Allora Rafia… qual è la tua storia?» mi chiede con fare cospiratorio, come se stessi nascondendo qualche mistero.
«Già», interviene un’altra, editor di una rivista letteraria, «come sei arrivata qui… in America, intendo»

Detesto così tanto questa domanda che ho messo a punto un pezzo da stand-up comedy per evitarla. Anche adesso sto recitando, ma in questa situazione la commedia non fa al caso mio, sembrerebbe un’elusione troppo palese. Però sono pronta a momenti del genere, se non altro perché molte volte in passato si sono dimostrati difficili da affrontare. Spesso(come nel mio copione da stand-up), rifilo un paio di bugie innocenti. Racconto di essere arrivata in America a diciotto anni per frequentare l’università, poi sono rimasta.

È una bugia solo per due terzi. La verità è che sono arrivata in America da giovane sposa. Una sera, dopo cena, seduta sul bordo del mio letto a Karachi nella metà degli anni Novanta, avevo acconsentito a un matrimonio combinato. Avevo diciassette anni; mio marito, un medico pakistano-americano di tredici anni più grande di me, aveva promesso di “permettermi”, una volta sposati, di frequentare l’università. C’erano altri motivi per cui dissi di sì, ma la possibilità di frequentare l’università negli Stati Uniti, cosa che la mia famiglia conservatrice non mi avrebbe mai permesso (né avrebbe potuto permettersi), fu determinante. Fino a quel momento la mia vita era stata scandita da ogni genere di restrizione e si estendeva a malapena oltre le mura domestiche. Non avevo mai provato la libertà, perciò vi rinunciai con leggerezza.

Quando arrivai negli Stati Uniti, mi trasferii subito a Nashville, in Tennessee, dove frequentai l’American Baptist College (all’epoca ancora strettamente affiliato alla Chiesa, quindi le invettive sulla dannazione eterna per i non-battisti erano all’ordine del giorno), scelto per me da mio marito, che mi aveva iscritta, ma che avrei pagato io ricorrendo ai prestiti studenteschi. Dopo aver concluso l’università, lo implorai di darmi il permesso di iscrivermi alla facoltà di Legge, per cui avevo fatto domanda e ottenuto una borsa di studio parziale. Rifiutò, poi cedette, poi cambiò idea, ricordando mi che la promessa coniugale era stata quella di mandarmi all’università, non alla facoltà di Legge.

La natura contrattuale del nostro rapporto diventò palese. I sette anni successivi non migliorarono le cose. Durante la nostra ultima lite, l’agente di polizia chiamato sulla scena seguì l’esempio di mio marito, improvvisamente calmo e cortese, e mi disse di “ricucire la situazione”. Avrei scoperto solo molto dopo che quella è la classica frase detta dagli agenti alle donne che si rivolgono a loro in cerca d’aiuto.

Non “ricucii la situazione”, ma passai la notte stringendo la mia bambina di pochi anni, addormentata. L’indomani, quando mio marito andò in ospedale per il giro di visite mattutino, presi lei, una valigetta di vestiti, una scatola di giocattoli, un materassino gonfiabile, e guidai fino a un rifugio per vittime di violenza domestica, una casa anonima e senza alcuna indicazione. Mi ci accompagnò una donna bionda con un ombretto azzurro acceso. «Seguimi in macchina», disse, quando ci incontrammo nel parcheggio di un Kmart, e così feci, mentre la colonna sonora di Barney andava a ripetizione per tenere calma mia figlia.

Ho calcolato i costi del raccontare al mio gruppo di bevute letterario la versione abbreviata della vicenda. Pur aggiungendo qualche dettaglio, la versione censurata della verità sarebbe parsa brusca, reticente. L’amicizia è fatta di segreti condivisi; avrei potuto iniziare a stringerla subito, avvolgendo le donne nella trama e nell’ordito della mia storia.

Ma sentivo di non poter condividere la mia storia per intero; il dramma e le difficoltà che avevo dovuto superare per costruirmi una vita da madre single negli anni Duemila erano palesemente fuori luogo nel bar, tra le mie compagne ben vestite, un poco brille ed elegantemente progressiste. Mi era già capitato di raccontare la verità a donne del genere e la reazione era stata sempre la stessa: occhi spalancati, sguardi gravi e sconvolti, mani alla bocca, braccia attorno alle mie spalle. Alla fine del racconto percepivo una compassione sincera, un febbrile scandagliare la mente alla ricerca di una storia simile, qualche zia o amica, una connessione con la violenza. Poi succedeva una delle due cose.

Quando mi andava bene, qualcuna faceva una battuta o proponeva un brindisi e si passava ad altri argomenti, che accoglievo con entusiasmo. Più spesso, quando non mi andava bene, c’era un silenzio imbarazzato dove ognuna fissava il tavolo o il proprio drink, cui seguiva un gran trafficare di borse e telefoni e motivi per andarsene tra esclamazioni tipo “quanto è stato bello” e “dovremmo rifarlo presto” e “grazie per aver raccontato la tua storia”. Le parole venivano pronunciate con le migliori intenzioni, ma il tono era inequivocabile. Non ricordo di averlo mai “rifatto presto”.

Il perché è questo: esiste una tacita divisione nel femminismo che da anni ribolle sotto la superficie. È la divisione tra le donne che scrivono e parlano di femminismo e le donne che lo vivono, tra le donne che hanno voce e le donne che hanno esperienza, tra le donne che dettano le teorie e le politiche e quelle che portano le cicatrici e le suture della lotta.

Sebbene questa dicotomia non rispecchi sempre una divisione razziale, è pur vero che, in linea di massima, le donne che sono pagate per scrivere di femminismo, che sono alla guida delle organizzazioni femministe e che dettano la politica femminista nel mondo occidentale, sono bianche e borghesi. Sono le nostre opinioniste, le nostre “esperte”, che sanno o almeno affermano di sapere cos’è il femminismo e come funziona. Dall’altra parte ci sono le donne non bianche, le donne della classe lavoratrice, le immigrate, le minoranze, le donne indigene, le donne trans, le residenti nei rifugi per le vittime di violenza domestica – molte delle quali conducono vite femministe senza però avere l’opportunità di parlarne o scriverne. Esiste un vago presupposto secondo cui le donne davvero forti, le “vere” femministe, allevate da altre femministe bianche, non finiscono in situazioni d’abuso.
Ovviamente ci finiscono, ma una quantità di fattori, tra cui l’accesso alle risorse, spesso fa sì che non debbano esporsi, ritrovarsi nei rifugi antiviolenza o nella condizione di doversi affidare al denaro pubblico. Al contrario, le donne non bianche, molto spesso immigrate e povere, necessitano di aiuti da parte di estranei e dello Stato, dunque sono più visibilmente in condizione di bisogno e più vittimizzate. È una situazione complessa, ma che promuove e mantiene l’attribuzione dell’immagine di salvatrici alle femministe bianche e di salvate alle non bianche.

Il femminismo bianco è dunque permeato da una rudimentale avversione al trauma vissuto, cosa che produce disagio e alienazione nei confronti delle donne che ne hanno fatto esperienza. L’ho sempre percepito, ma solo di recente l’ho collegato al tacito assunto sociale riguardo a chi subisce un trauma.

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