Michela Murgia, una profonda tristezza! Ho amato il suo “Accabadora”. L’ho amato da sarda, quale io sono.

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Era un’abitudine ormai cercare le storie di @michimurgia su Instagram. 

Era il mio modo per seguirla con affetto nella malattia, mi sembrava di scongiurare la sua scomparsa. Anche oggi c’è, mi dicevo e sorridevo per ciò che postava.

Negli ultimi giorni non c’era nulla di nuovo. Sicuramente, pensavo, qualche intoppo dovuto alle cure, ai controlli sanitari. 

Anche stamattina, 11 agosto, ho cercato una nuova storia, ma non c’era niente sul social. In realtà la nuova storia c’era, ma superava la quotidianità di Instagram

Quella nuova era una storia invisibile che superava tutto, inaspettata, anche se da tempo preannunciata: la sua morte. 

La morte vicina che Michela Murgia aveva disvelato mostrandola come un valore e liberandola da quella ansia terrorizzante che ci spinge a rimuoverla dalla nostra vita.

Michela: una cattolica, di formazione culturale e tecnica, un corso superiore di studi teologici, una carriera lavorativa di chi si è fatta da sola. 

Un approdo alla scrittura non ascrivibile ad una corrente o ad un genere.

Ho amato il suo “Accabadora”.  L’ho amato da sarda, quale io sono. 

Un’opera che esprimeva chiaramente ciò che Michela aveva chiaro nella sua mente e che una cultura come quella sarda, misteriosa, severa di una logica senza fronzoli ipocriti sicuramente le aveva donato.

Parla della storia di una figlia d’anima, –fizighedda e anima– in sardo, da parte di una donna sola, non più giovane, che pur non avendo legami di sangue con lei, curerà e amerà di un amore che crescerà con sapienza. 

Un amore che non nasce da un istinto, da un desiderio, ma dalla lucida consapevolezza che in quel momento era quella la strada da percorrere.

Una famiglia che nasce dallo “ius voluntatis”, un tema tanto caro a Michela Murgia per il cui riconoscimento ha lottato con un’allegria rassicurante e logica fino all’ultimo istante della sua vita. 

Gli affetti si scelgono e vanno ben al di là dei legami di sangue che a volte le regole sociali ci fanno subire.

La tzia Maria protagonista di Accabadora oltre che sarta di un piccolo paese ed esperta di riti, erbe, saggezza e mistero della vita era una benefica portatrice di morte.

Ancora oggi non riusciamo ad essere sereni nel parlare di morte, della necessità, a volte, di morire.  L’accabadora non aveva dubbi morali in proposito. 

La morte era a volte una necessità e lei aveva il dono di capirlo e la pietà per aiutarla a trovare la sua strada senza inutili sofferenze per il malato. 

Ancora oggi su cosa sia giusto a proposito della possibilità di interrompere una vita sofferente non riusciamo a trovare percorsi dignitosi. Una figura leggendaria in Sardegna, una misteriosa verità.

La parola morte Michela Murgia riusciva a pronunciarla con un sorriso ironico e grato ribaltandone completamente significato e funzione. 

Se riuscissimo a ricordarci che fa parte della vita di ognuno di noi, perderemmo meno tempo in problemi inutili e banali accettandola senza lotte inutili ed approfittando di ogni attimo di vita per lottare senza paure.

Michela ha lottato per i diritti, mordendoli all’osso, rivelando secondo alcuni l’ostinazione e la testardaggine di chi vuole avere sempre ragione e chiudere con l’ultima parola qualunque discussione. I. n realtà contraddirla era abbastanza duro.

Ha realizzato un sogno raggiungibile per tutti: morire vivi.

di Grazia Satta

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