La prima nascita di un essere umano è casuale, nessuno l’ha né decisa né desiderata, ma la seconda, quella sì, quella ci appartiene, quella la decidiamo noi.
Probabilmente Saman Abbas aveva sperato di poter nascere, rinascere nel suo mondo sognato e possibile qui in Italia e per questa seconda nascita si era scelta un nome, Laila.
Ho conosciuto tante Saman e tanti Muhammad, ragazze e ragazzi che reclamavano la propria vita, il proprio corpo, gli affetti liberi da ricatti e fratture. Di alcuni conosco la conclusione della storia, di altri no. Sono spariti, più spesso sparite, risucchiate in un paese lontano, inghiottite da una cultura in cui, per sopravvivere, si doveva accettare di essere mentalmente e fisicamente scisse.
Saman vede in Italia la via della libertà, la percorre. É innamorata, ma prima ancora, forse, impara a volersi bene.
Il suo corpo le appartiene, piano piano diventa Laila. Non si copre più, si veste in jeans e giubbotto, si trucca, si scopre bella, ama la vita, ama un ragazzo ed ama, ed è naturale che sia così, la sua famiglia.
La sua famiglia la uccide. Uccide la sua ribellione. Quella madre e quel padre puniscono il disonore perché la figlia non è colpevole di niente. La accompagnano a morire in una orrenda scissione di sentimenti. Quella figlia ha infranto un tabù, ha infranto le regole tribali di una cultura arcaica in cui i maschi sono condannati a comandare e facendolo ha permesso agli altri di parlare o meglio di sparlare della sua famiglia. “Cosa dirà la gente?” dice il titolo di un bellissimo film su una ragazza pakistana in Norvegia. Il titolo del film riduce ad un orrendo niente questo senso dell’onore che permette di uccidere una figlia.
In cosa consiste la perdita dell’onore?
In una cultura patriarcale il padre disonorato è isolato e al tempo stesso avvolto in una ragnatela appiccicosa di sorrisi ironici, sussurri e sguardi nascosti. Non si fa più parte di una rete sociale, si è esclusi da un mondo in cui non si fa altro che sparlare di qualcuno in un violento continuo sussurro. Non c’è scampo. I gruppi pakistani spesso sono isole smarrite in un mare di culture diverse dalla loro. Sentono gli altri che non appartengono alle loro tradizioni come un pericolo. Non permettono legami e quotidianità al di fuori del proprio gruppo di appartenenza. Nessuno può sdrammatizzare, condividendolo, un difficile momento di crisi e isolamento sociale. Spesso non ci si accorge di loro se non per il differente modo di vestire.
Guardo la foto in cui Laila è abbracciata al suo ragazzo, le mani nelle mani, quasi in punta di piedi. Leggo che il fratello minore quella foto l’ha fatta vedere alla madre. Non si sa chi abbia fatto quello scatto. Forse è stato un amico della giovane coppia. Forse quell’amico è un altro pakistano che sa che con quella foto può generare uno scandalo e gli scandali agitano un fermento nella comunità. Il pettegolezzo velenoso è un piacere a cui è difficile rinunciare. Ognuno di loro a turno è una volta carnefice e un’altra vittime.
Spesso sono attimi immortalati, rubati da una persona amica che fa girare il gossip all’interno della comunità prima, che lo fa arrivare alla famiglia poi, in un giro più largo, vorticoso di esplosioni di disonore e vergogna e sorrisi sprezzanti.
Laila sa come funzionano le cose in una situazione simile. Non si meraviglia di ascoltare parole di morte da parte di sua madre. Si era già ribellata ad un matrimonio combinato, pretendere di decidere della propria vita in una cultura patriarcale è veramente troppo.
Si chiama ancora Laila quando scappa da casa cercando protezione e denunciando i genitori. Forse Laila si illude di portare in salvo Saman di ricongiungere queste due parti in un essere intero capace di camminare nel mondo con una nuova forza.
Forse si illude di resistere al suo amore di figlia quando torna a casa per prendere i documenti che le avrebbero dato le chiavi della propria vita. Forse Saman, non più Laila, quando torna a casa si ritiene colpevole per aver infranto le regole. In fondo queste cose le ha sempre sentite dire, è cresciuta sotto la pressione dell’educazione patriarcale. Non c’è dubbio, all’interno delle mura domestiche è colpevole.
Gli ultimi filmati della sua vita sono terribili. In pochi istanti la vediamo prima coi vestiti tradizionali che cammina e parla con sua madre, poi coi jeans le scarpe da tennis e lo zainetto che si allontana verso il buio di una sera di primavera.
La Laila ribelle accompagna la Saman ubbidiente a pagare con la morte la sua voglia di esistere.
di Grazia Satta