Sono stata in Israele durante la guerra Piombo fuso.
Ho ritrovato il mio diario di quei giorni e le fotografie e provo a rimettere a fuoco alcune delle cose che ho respirato quei in giorni.
Ancora non trovo il senso di ciò che ho visto.
Col titolo del romanzo di Amos Oz ho registrato il file delle foto fatte.
Sono trascorsi quasi da allora quindici anni.
Atterriamo all’aeroporto Ben Gurion il 27 dicembre 2008.
In Italia da giorni i media parlavano di forti tensioni tra palestinesi ed ebrei e la mia incosciente preoccupazione era quella che potessero impedirci di partire, invece ce l’avevamo fatta.
In aeroporto siamo stati immediatamente informati del precipitare della situazione.
Gruppi di turisti appena arrivati già si informano su come ripartire. Noi, cinque persone messe insieme da un’agenzia di viaggi alternativi, decidiamo compatti di restare promettendoci la dovuta prudenza.
Troppo forte la curiosità di capire, camminando nella realtà, i fatti raccontati con enfasi sospettosa dai giornalisti di tutto il mondo.
Due ore di controlli da parte della polizia doganale.
Domande ostinate e ripetitive:
Perché siete venuti qui?
– Per turismo
Conoscete qualcuno?
– No
Non ne possiamo più! Non parliamo inglese, non capiamo. Qualcuno ci aveva consigliato di usare questa scusa!
Due ore di controlli ostinati. Pensiamo che l’autista del pulmino noleggiato non ci abbia aspettato, invece no, è lì, addirittura meravigliato del breve tempo impiegato per i controlli, vista la situazione attuale.
Cominciamo il nostro giro secondo i piani stabiliti tempo prima nel momento dell’organizzazione del viaggio.
Un tour turistico e niente più.
Piano piano gli occhi si adattano alla luce ed alle ombre. Percepiscono la differenza dei volti, degli sguardi: rabbia e dolore diversi. Paesaggi diversi, il verde annaffiato goccia a goccia e la terra arsa, l’acqua e la sua mancanza, i locali costosi o alla buona. Uomini con la kippah o con la kefiah, quasi a comunicare con puntigliosità la propria appartenenza, scorci di muro e torrette di controllo, ogni tanto file di mezzi militari. Un territorio pieno di strappi.
Siti religiosi vietati, controllati con le armi.
Tanti pregano un Dio che non conoscono e nel quale forse non credono.
Giovani soldati armati ovunque.
La moschea di El Aqsa è aperta poche ore al giorno. Riusciamo ad accedere alla spianata dopo aver superato numerosi controlli. Ci sono militari israeliani ovunque. In una zona sacra dove si dovrebbe camminare scalzi vedo scarponi e tante armi.
Il Muro del Pianto è vicinissimo, naturalmente presidiato da soldati.
Il nostro autista è palestinese, è di poche parole e quelle che ha le spende tutte parlando continuamente in arabo al telefono. La radio è sempre accesa e non ci vuole troppa immaginazione per capire che sta ascoltando gli sviluppi delle azioni di guerra.
Ci guarda come occidentali che non possono capire una realtà troppo lontana ed ha ragione.
Una mattina a Banjas rimango con lui nel pulmino mentre gli altri fanno un breve cammino nella nebbia.
Con un inglese stentato gli chiedo notizie su Gaza, gli dico che siamo addolorati e che vorremo capire qualcosa di ciò che sta accadendo.
Mi racconta della sua famiglia -ha due gemelli di due anni e una bimba di otto-, dei suoi parenti ed amici, del fatto che tutti hanno un parente o un amico che vive a Gaza e tutti vivono in un’ansia continua. Accenna ad un sorriso grato e quando gli altri tornano, dopo una telefonata, ci propone di andare a mangiare qualcosa dalla sua cognata che abita là vicino in un villaggio di beduini.
Entriamo in una casa palestinese accolti con cordialità e tanta voglia di raccontare.
La prima sorpresa la troviamo nel salotto dove sotto una vecchia moto verniciata con la bronzina c’è allestito un presepe con tanto di Gesù Bambino.
– Gesù è un profeta importante per i musulmani.-
Ci fanno visitare la casa. Nelle loro camerette ci sono i bambini che giocano col computer.
La mamma, insegnante, ci racconta che la scuola funziona male, che i bambini arabi frequentano scuole diverse da quelle dei loro coetanei ebrei in un sistema scolastico diverso, non ufficiale tra ebrei e arabi, ma riconosciuto come tale. Le differenze si notano negli edifici, nel personale, nella lingua araba e non ebraica per lo studio delle materie, nei programmi diversi di cui il Ministero dell’Educazione ha il pieno controllo.
I fondi riservati al settore educativo arabo sono inferiori rispetto a quelli dedicati a quello ebraico con conseguente differenza di successo scolastico elevato. Nell’ammissione alle università israeliane è fondamentale padroneggiare perfettamente la lingua ebraica.
La divisione fra i due popoli è stigmatizzata fin dalla più tenera età, in un “Divide et impera” che non può non avere conseguenze disastrose.
– Un’analoga divisione – ci spiega il nostro autista, ormai amico – avviene per quanto riguarda il servizio militare: gli arabi israeliani di religione musulmana e cristiana non sono soggetti alla coscrizione militare nelle forze di difesa israeliane.-
In sintesi gli israeliani sono armati ed addestrati, gli arabi no.
A distanza ormai di quindici anni le cose non sono cambiate.
Gerusalemme è una città fastidiosamente turistico-religiosa. Negozi di souvenir ovunque.
Preghiere distratte e inascoltate ovunque.
Un venditore cristiano di oggetti sacri mi racconta che nel suo giardino è passata la linea di costruzione del muro e che ora per andare a coltivare il suo orticello deve raggiungere il più vicino check point a distanza di mezz’ora e tra andata e ritorno ci vogliono un paio d’ore per arrivare a casa sua.
L’orticello non esiste più.
– Si sono portati il muro da Berlino e stanno recintando i popoli. Il sabato si ferma tutto, anche i bancomat. Si dà importanza a regole assurde e ci si dimentica dell’umanità. Stasera preghiamo tutti un po’ di più.-
Questo è.
Una guida turistica in un sito archeologico mi scambia per spagnola, forse perché lei accompagna un gruppo di spagnoli e mi rivolge la parola.
Sei una pellegrina?
– No –
Sei una turista?
– Non proprio, non solo –
Allora perché sei qui in questo momento?
– Non sono andata via come tanti altri perché volevo respirare l’esperienza di questi giorni –
Cosa pensi? Sei anche tu una filo palestinese come quelli che scelgono di rimanere qui convinti che noi siamo i cattivi? I media da voi parlano delle vittime palestinesi e non ricordano i morti israeliani–
– No, non sono una filo palestinese, ma vedo cose terribili e la storia dei media non è proprio esatta-
Cioè?
– Senza badare all’appartenenza vedo che stanno morendo tanti civili all’interno della striscia di Gaza
Muoiono anche i soldati israeliani
– Certo, è terribile
Facile parlare, tu cosa faresti?
– Cerco di non cadere nel ruolo dell’ignorante che sputa sentenze politiche.
C’è da fare solo una cosa: la pace senza chiedere un pareggio di conti.
Noi spariamo solo a Gaza. I palestinesi sono sleali perché vicino agli obiettivi militari permettono di abitare alle popolazioni civili. Le vittime civili sono una cosa terribile. Fanno male anche a noi le immagini dei bambini morti e feriti.
– Basterebbe fare la pace.-
Si farà, ma adesso bisogna eliminare i terroristi. Noi siamo un popolo civile e democratico e rispettiamo la vita di tutti, pensa che cinque minuti prima di sganciare una bomba, facciamo una telefonata perché abbandonino le case.- -Se qualcuno mi telefonasse per avvertirmi che la mia casa verrà bombardata, forse non avrei la forza di abbandonarla, preferirei morire là ed evitare tutto il dolore di una profuga.- Mi segue, vorrebbe parlare ancora, ma il suo gruppo la reclama.
La città delle tre religioni mi svela a tratti la follia pura.
Nella zona antistante il Santo Sepolcro mi imbatto in un piccolo gruppo di pellegrini cattolici e involontariamente, nell’attesa di accedere all’interno della chiesa sento le parole del sacerdote che lo accompagna:
-Noi cattolici siamo nel giusto, la nostra è la vera fede, non abbiate paura dell’Islam. Non riusciranno a convertirci e la loro fede, essendo debole li sosterrà poco al loro arrivo in Occidente e si pervertiranno tutti con le nostre tentazioni. Moriranno.-
Entro nella cappella del Santo Sepolcro e vedo una lunga fila di pellegrini davanti ad una porta, faccio il giro e trovo un altro accesso controllato da un padre della chiesa copta etiope. Là non c’è nessuna fila. Chiedo come mai.
Il padre mi risponde:
-È lo stesso sepolcro, ma questa è la parte dei piedi e la gente vuole essere benedetta dalla parte della testa, ma piedi e testa non appartengono allo stesso corpo?!
Mi benedice sorridendo in modo sconsolato e mi dona un piccolo rosario di legno.
Vedo nei visi sia dei palestinesi che degli israeliani una certa durezza.
Il suk arabo è meno turistico di quelli visitati in altri paesi musulmani dove di solito c’è un allegria che invita alla contrattazione.
Non mi mostro interessata ad un acquisto proposto senza slancio da un venditore. Mi dice con spiacevole ironia:
– Italiana? Mafia e spaghetti.
Tenebre e luce.
In un vicolo sentiamo un allegro starnazzare di bambini, buttiamo l’occhio all’interno di un cortile e delle donne ci invitano ad entrare.
Ci spiegano che sono mamme arabe, ebree e cristiane, che si sono organizzate in un’associazione democratica e fanno ciò che non fa lo stato: educano i loro figli alla conoscenza reciproca, al rispetto ed alla curiosità nei confronti delle diversità.
È un ambiente luminoso, allegro, senza simboli religiosi. Tanti giocattoli ed un tavolo imbandito con fette di pane e marmellata.
Credono nella pace e nella convivenza senza se e senza ma.
Forse quei bambini ormai giovani adulti stanno marciando per la pace in questi giorni bui del 2023.
Prendiamo il famigerato autobus 18 per Ramallah, quello dei controlli senza fine.
I viaggiatori, tranne noi, sono palestinesi.
Arrivati al check point fanno scendere tutti eccetto noi. Sappiamo per letteratura che i controlli durano delle ore, invece no, risalgono subito e ripartiamo immediatamente. Dopo qualche minuto ci rendiamo conto che le persone salite non sono le stesse che abbiamo visto scendere: quelle salite sono altre, probabilmente sono quelle di un bus precedente e che, probabilmente, avevano già subito i lunghi controlli.
Parliamo con loro ed una donna madre di un bimbo con la sindrome di down ci spiega che quel check point è sempre presidiato da due donne, una musulmana ed una ebrea affinché non accada niente di spiacevole durante i controlli che a volte sono delle vere e proprie perquisizioni.
Un po’ di luce.
Ramallah è una città caotica con costruzioni incombenti, affollate nel caos.
Ci dirigiamo verso il centro. C’è una manifestazione. Aprono il corteo donne col velo bianco. Sono insegnanti di una scuola araba e marciano per la pace, sono seguite da altre donne, ebree, musulmane, cristiane. Non conta più l’appartenenza. Marciano per la pace, contro i bombardamenti a Gaza. Una di loro ci invita a seguirle, almeno un po’ – cinque o dieci minuti.- ci dice.
Ci uniamo a loro.
Ci fermiamo a parlare con un gruppo di ragazzi, studenti delle scuole superiori, che raccoglie offerte di cibo e sono felici di parlare di ciò che sta succedendo con un gruppo di italiani.
C’è la TV palestinese che ci intervista.
I ragazzi pur impegnati in un percorso di pace ci fanno un discorso realistico e disilluso: -Tutte le famiglie palestinesi hanno un morto da piangere, ammazzato in questa eterna guerra e quel morto è un seme di odio difficile da cancellare.
Il dolore non aiuta il perdono.
La pace ci sarà, ma non è vicina.
Tenebre e luce.
di Grazia Satta