Di Ejjaz H., giornalista esperto in sicurezza e politica estera per Dawn
In seguito all’attacco del 22 aprile a Pahalgam, in Jammu e Kashmir occupato dall’India, le relazioni tra India e Pakistan sono tornate al punto di ebollizione. Ancora una volta, i media indiani hanno accusato Islamabad senza prove concrete, e i toni si sono fatti incandescenti. In questo scenario, l’idea di un conflitto armato non è solo una minaccia ipotetica, ma una possibilità concreta. La domanda cruciale è: l’India può davvero permettersi un attacco contro un Pakistan dotato di armi nucleari?

La spirale della tensione
Il copione si ripete: un attentato colpisce l’India, si punta il dito contro il Pakistan, la stampa rilancia la narrativa della punizione. La destra nazionalista e i sostenitori della politica Hindutva alzano la voce, mentre anche le forze politiche più moderate si uniscono al coro della condanna. La complessa realtà del Kashmir viene semplificata in una logica binaria: India aggredita, Pakistan colpevole.
Farooq Sattar, membro dell’Assemblea Nazionale pakistana, ha definito l’attacco di Pahalgam il più grave fallimento dell’intelligence indiana, paragonandolo a quello di Pulwama nel 2019. Secondo Sattar, l’India starebbe usando questi eventi per giustificare politiche oppressive e distogliere l’attenzione internazionale dalla questione del Kashmir.
Guerra limitata? Una teoria rischiosa
Secondo la dottrina classica di Carl von Clausewitz, la guerra non ha senso se non raggiunge un obiettivo politico. L’India, anche volendo lanciare un attacco limitato, dovrebbe definire con chiarezza il suo obiettivo: vuole semplicemente “punire” il Pakistan? Vuole dissuaderlo da futuri attacchi? O vuole solo dare un segnale interno in vista delle elezioni? Se manca una strategia chiara, ogni operazione rischia di trasformarsi in un boomerang geopolitico.
Il problema maggiore resta il rischio di escalation. In un contesto bilanciato dalla minaccia nucleare, ogni attacco convenzionale può degenerare. L’esperienza delle simulazioni militari statunitensi durante la Guerra Fredda, come il gioco segreto “Proud Prophet” del 1983, dimostra che anche conflitti inizialmente controllati possono sfuggire al controllo e sfociare in una guerra nucleare totale.
L’equilibrio del terrore
Il possesso di armi nucleari da parte di entrambe le nazioni complica qualsiasi iniziativa militare. Il Pakistan mantiene deliberatamente un’ambiguità strategica sulle sue “linee rosse” nucleari, aumentando l’incertezza dell’aggressore. Anche se l’India ha una superiorità convenzionale, ciò non garantisce una vittoria, soprattutto se il Pakistan riesce a rispondere in modo simmetrico nel primo scambio.
Come dimostrato nel 2019 dopo l’attacco di Pulwama e il raid aereo indiano su Balakot, le reazioni del Pakistan sono state rapide ma calibrate. Il messaggio era chiaro: Islamabad non resterà inerme, ma agirà entro limiti strategici. In tale contesto, l’idea che l’India possa “dominare l’escalation” appare più un azzardo politico che una realtà militare.
Kashmir: la radice del conflitto
Alla base delle crisi ricorrenti c’è il nodo irrisolto del Kashmir. L’India rifiuta qualsiasi discussione sulla sua presenza nella regione, considerandola una questione interna. Il Pakistan, al contrario, continua a sostenere il diritto all’autodeterminazione del popolo kashmiro, come riconosciuto da risoluzioni delle Nazioni Unite.
Dal 2014, il governo Modi ha adottato una linea dura: isolamento del Pakistan sul piano internazionale, repressione interna in Kashmir e revoca dell’autonomia regionale (Articolo 370). Il modello sembra ispirarsi alla politica israeliana nei confronti della Palestina: negare l’esistenza dell’altro come soggetto politico.
Ma anche il Pakistan ha commesso errori. In passato, il suo sostegno a gruppi armati ha offuscato la legittimità della causa kashmira, facilitando la narrativa indiana che equipara resistenza e terrorismo.
Il pericolo strutturale
Il vero problema è strutturale: due potenze regionali, una in crescita e desiderosa di dominare, l’altra determinata a non essere soggiogata. In tale equilibrio precario, ogni crisi rischia di sfociare in un confronto armato, voluto o meno. Come scriveva Henry Kissinger sul Vietnam: “Non sapevamo nemmeno cosa volessimo ottenere”. Vale anche per chi pensa a una guerra “limitata” nel subcontinente.
Conclusione
L’unica strada razionale resta quella della diplomazia. Ma ciò richiede un cambio di mentalità, soprattutto da parte indiana, che deve accettare il dialogo come strumento di risoluzione e non come concessione di debolezza. Finché questo non accade, il subcontinente resterà una polveriera, e ogni scintilla potrebbe essere quella fatale.