Donne, diverse, dinamiche, oppresse, ribelli, divise. Madri e figlie. A volte senza la possibilità di riconoscersi, ma sempre tessitrici.
Negli ultimi anni le pericolose e svolte a destra della politica italiana hanno determinato la diminuzione degli investimenti economici per i progetti di, scusate l’orrenda espressione, integrazione delle cittadine e i cittadini stranieri.
Le conseguenze sociali e culturali di queste scelte sono inquietanti e pericolose per gli scenari futuri.
Le diverse culture presenti nel territorio italiano, a volte concentrate in realtà circoscritte per convenienze economiche e sociali, si sono frantumate in schegge di appartenenza isolate e culturalmente autoreferenziali.
Ne fanno le spese soprattutto le donne e i giovani cosiddetti di seconda generazione. Questi ultimi non costituiscono più un’urgenza per le scuole perché, nati in Italia, parlano perfettamente la lingua. Vivono però all’interno di un doppio limbo: non sono riconosciuti come connazionali compiuti dai loro coetanei e sono motivo d’ansia per le famiglie di appartenenza che temono un’eccessiva integrazione e il conseguente tradimento della cultura di origine.
Un bel pasticcio che genera aspettative tradite, diffidenze familiari e pericolosa rabbia.
Le donne spesso non avvertono la realtà attuale: nella migrazione concatenata che è tipica di alcune realtà culturali come la pakistana, sono contente di trovarsi in gruppi rassicuranti di connazionali e non esiste niente al di fuori della propria quotidianità.
Continuano a stare a casa, non escono da sole neanche per fare la spesa e finché i figli non vanno a scuola non si pone nemmeno il problema di imparare l’italiano. A volte i figli stessi diventano i mediatori linguistici delle proprie madri.
Il ristretto, ma affollato da gruppi culturali diversi, punto di osservazione per seguire tali fenomeni sociali è una cittadina vicino a Ferrara, Portomaggiore, dove oltre quindici anni fa un potpourri di amici ha fondato un’associazione che si chiama Portamico.
Siamo nei primi anni del 2000. Anni in cui sembrava possibile accompagnare le donne che volevano farlo, in un’autonoma vita fuori dall’isolamento della casa.
Si parlava di micro imprenditorialità diffusa, di contaminazioni sartoriali e culinarie, si festeggiavano insieme le ricorrenze delle diverse culture, si dava vita a iniziative, in cui si aprivano le porte di casa e si assaggiavano con curiosità i piatti del mondo.
Si era tutti un pezzo di mondo. Si progettava e chi progetta sta curando il futuro. Le strade erano abitate e si era creata una benefica ragnatela sociale in cui ci si orientava. Si parlava di vicinato.
Conoscevamo e mangiavamo tanti pani diversi.
La cultura entrava e usciva dalla scuola e i ragazzi avvicinavano i banchi e si divertivano a parlare, a partire dalle parolacce, le diverse lingue.
Le donne parlavano e si confrontavano. A volte faceva capolino l’ironia su stereotipi culturali vari. Il filo della comunicazione era forte e sapevamo individuarne i nodi. Sapevamo quali problemi si annidavano nelle micro realtà familiari e riuscivamo a penetrare nei silenzi.
Complottavamo perché non accadesse nulla di grave.
Cos’è successo in questo ultimo infinito decennio? Siamo andati tutti a letto presto presi da un torpore contagioso. I fili si sono sfilacciati e siamo tornati a casa svuotando le strade e i luoghi di incontri e la paura ha preso il sopravvento.
La paura dell’altro.
Ora a Portamico stiamo cercando di ripartire contandoci, frugando in dispensa per fare un buon piatto con gli avanzi rimasti.
L’associazione ha fatto i conti con i propri di avanzi e vuole rimettersi in gioco in questo 2023. Uno di questi è un piccolo locale, messo a disposizione dell’associazione dal Comune nell’ex ospedale di Portomaggiore, ora Casa della Salute.
Filo, fili sfilacciati, fili per cucire, riparare, ricamare, filò, fare filò.
Da questi giochi di parole è nata l’idea di dare vita ad un progetto chiamato “Stanza del filò”
Un’idea semplice essenziale, ma non facile da realizzare. Solitudine sociale, diffidenza, incertezza nelle vite di tanti, la guerra, l’idea di profughi di serie A o B, tutto concorre a intrappolare monologhi di tanti che non si sciolgono in dialoghi. Piccoli nazionalismi con cui fare i conti.
Non c’è dialogo senza ascolto e da questo presupposto cerchiamo di ripartire coinvolgendo donne di tutte le età.
Per prima cosa si è creata una tana confortevole: chi ha portato un vecchio divano, chi una sedia, un bollitore, una scatola di latta per biscotti e tisane, un portatile, una lampada, dei fiori di tessuto colorati chi uno scaffale e dei libri in una babele di lingue.
Ora cerchiamo di trovare una strada che porti alla consapevolezza di noi e dei nostri diritti.
“Chi sono
Di chi è il mio corpo
Da dove vengo
Quali sono i miei desideri
Voglio essere importante per me stessa
Voglio muovermi in mezzo agli altri
Voglio risolvere i miei problemi
Posso perdere un amore o un affetto
Sarò io responsabile del mio essere e dunque sarò onesta e mi rispetterò”.
Questi sono i temi sui quali vorremmo confrontarci .
Gli incontri cominceranno a metà gennaio con una cadenza settimanale, saremo piccoli gruppi di donne con la speranza di crescere e faremo esistere le parole pronunciandole, scrivendo, leggendo reciprocamente i pensieri, esercitando la capacità di ascolto.
Rideremo e ci arrabbieremo e chiederemo al Dio di turno di darci la luce del sole di notte, perché è allora che ne abbiamo bisogno.
di Grazia Satta