Hikikomori, uno sguardo dal buio

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Hikikomori è un termine giapponese traducibile con “stare in disparte”.

È un fenomeno che comincia a manifestarsi alla metà degli anni ottanta e si afferma con preoccupante vigore negli anni novanta, diffondendosi in tutti i Continenti. 

Ne parla Angela Staude nel suo bellissimo diario di vita intitolato “Giorni giapponesi”pubblicato in Italia nel 1994. 

Quando lo lessi, pensai con tristezza che fosse un fenomeno lontano dalla nostra società e sicuramente imputabile alla crudeltà competitiva a cui erano sottoposti i giovani giapponesi. 

“Stare in disparte” era una risposta alle richieste di omologazione ad una vita-azienda che la società nipponica imponeva ai giovani. Una reazione naturale allo stress da prestazione cui i ragazzi erano sottoposti fin dall’infanzia. 

Le scuole pubbliche qualitativamente molto scarse costringevano a passaggi via via più difficili nell’inserimento, dopo esami selettivi, in scuole private che avrebbero garantito il successo sociale e la sicura appartenenza a questa macchina efficiente e produttiva che era lo Stato. 

Chi non ci riusciva era considerato un fallito.

Questo fenomeno, anche se non riconosciuto in un primo momento, colpiva anche l’Italia nel decennio di fine secolo, ma solo in questi mesi, precisamente nell’ottobre del 2023, la camera ha approvato una mozione proposta dall’on. Augusta Montaruli che riconosce “la piaga dell’isolamento sociale volontario, denominato Hikikomori…”

All’inizio degli anni novanta, lavoravo in una piccola frazione nel Delta del Po, un luogo magico di acque e terre abitato prevalentemente da pescatori. 

Immaginavo ragazzi selvatici con vite privilegiate a contatto con la natura. 

Non era proprio così.

Mi colpì un abbigliamento bizzarro che notavo in classe, in alcuni ragazzini. 

Sotto i jeans o la tuta da ginnastica vedevo spuntare i pantaloni del pigiama. 

La prima volta che commentai con ironia, alludendo alla voglia di stare a letto il più tempo possibile e la fretta di vestirsi per andare a scuola, mi rivelarono uno stile di vita particolare. 

Mi spiegarono che in questo modo erano già pronti per stare a casa ed al ritorno dalla scuola avrebbero potuto rannicchiarsi nella loro camera, guardare la tv, smangiucchiare qualcosa, stare al “baracchino” (così chiamavano il trasmettitore CB  che era presente in tutte le case dei pescatori) per comunicare con le imbarcazioni in mare. A tempo perso, trovavano il modo per fare i compiti. 

Non vedevano l’ora di rintanarsi!

Computer ed internet erano allora un privilegio esclusivo, ma la tv cominciava a trasmettere interminabili telenovele hollywoodiane con invito a mettersi in contatto per conoscere le star attraverso costosissime telefonate internazionali. 

L’uso dei CB radio era considerato normale nella loro quotidianità.

Questi studenti spesso non brillavano nel profitto scolastico delle lingue straniere, ma padroneggiavano il codice del soccorso marino e delle informazioni meteorologiche in almeno quattro lingue.

Intravvedevo una solitudine confortevole in cui le persone fisiche si smaterializzavano, come se i corpi potessero creare un ostacolo a connessioni globali. 

Mi sembrava di assistere alla nascita di un nuovo continente abitato da ombre luminose. 

Nell’ultimo decennio del XX secolo avvengono alcune trasformazioni. 

Nel ’94 nasceva il primo governo Berlusconi. Si inneggiava al successo, ai soldi ed alla competizione più sfrenata.

Cominciava a diffondersi l’uso dei telefoni cellulari e di Internet.

Negli anni ’92/94 era ministra della Pubblica Istruzione Rosa Russo Iervolino che prometteva la trasformazione delle scuole in piccole aziende gestite da un preside manager. 

Iniziava la gestione privatistica del sistema scolastico che introduceva un sistema di verifica dell’efficacia e della qualità del servizio pubblico scolastico. 

Il tutto avveniva col “bene placet” dei sindacati, CGIL compreso. 

Si parlava di collaborazione con le aziende presenti nel territorio per l’ottimizzazione richiesta/offerta lavorativa a prescindere dalle attitudini scolastiche di ciascuno. 

Le scuole cercavano di catturare nuovi alunni con gli open day invitando genitori e figli a visitare ambienti bugiardi, ma vestiti a festa, accompagnati da insegnanti costretti a diventare dei piazzisti a buon mercato.

Nessuno ascoltava la voce degli studenti. Nessuno chiedeva loro di esprimere desideri, sogni e attitudini. 

Il motto era: Fare più classi. 

Era la garanzia che la scuola con numerosi alunni non sarebbe stata “accorpata” a nessun’altra, altrimenti ci sarebbe stato il rischio di perdere il dirigente e tutto l’apparato burocratico declassando l’istituto scolastico e la comunità che ruotava attorno. 

… è il sistema responsabile del successo degli studenti, non solo i genitori, non solo gli studenti, non solo gli insegnanti. La cultura crea il sistema.

In Italia i dati ufficiali attuali riferiscono tra i 50mila e i 70mila casi di Hikikomori nella sola fascia studentesca. 

Ho incontrato i primi ragazzi che si auto isolavano alla fine degli anni novanta. 

Si parlava di loro come di individui fragili, introversi, soggetti ad attacchi di panico, in difficoltà familiari e scolastiche, non in grado di affrontare con serenità i rapporti sociali. 

In genere erano ragazzi fuori dalla mischia, silenziosi, poco attivi nelle relazioni, ma allo stesso tempo non passivi. 

Ribelli silenziosi.

Era come se fossero in attesa di mettere in atto il proprio desiderio di fuga. 

Ad un certo punto sparivano dalla classe e la scuola perdeva i contatti. 

Erano, spesso, in età di obbligo scolastico e per arginare i vari danni che la loro assenza creava, ci si metteva in contatto con genitori, servizi sociali, psicologi. 

Si strutturavano progetti per cui si accettava un’eventuale frequenza intermittente, ma loro non volevano più entrare in una classe né parlare con compagni o docenti.

A volte l’unico contatto con alcuni amici era uno squillo di cellulare che illuminava il nome di chi chiamava.

Si sottovalutava la gravità del fenomeno e non ci si interrogava sulle cause.

Erano ragazzi silenziosi in un mondo in cui la timidezza era uno svantaggio, selettivi nelle amicizie mentre le relazioni sociali della maggior parte dei compagni erano condizionate dall’appartenenza ad un gruppo guidato da un leader forte, a volte soli in casa perché entrambi i genitori lavoravano fino a sera, vittime di bullismo perché non indossavano un abbigliamento con le marche giuste, costose, all’ultima moda e avevano i corpi ancora acerbi nel transito della crescita.

La scuola non li stimolava e non si preoccupava di capirne le diverse individualità.

Si cominciava l’anno scolastico con i test d’ingresso per capire il livello della cosiddetta “preparazione pregressa”. 

In realtà servivano solo a creare in loro ansia. 

Si veniva promossi o bocciati il primo giorno di scuola.

Gli insegnanti erano più giudici che allenatori del gioco della vita ed il sistema di verifiche con test e crocette era metallico e privo di qualsiasi possibilità di uno spazio di contrattazione nella comprensione. Si doveva essere veloci, con una buona memoria ed esperti in calcolo delle probabilità per raggiungere risultati sufficienti.

Sparivano le interrogazioni, scompariva il confronto dialettico, la possibilità di esprimere idee, riflessioni. La vis polemica era messa al bando. I ragazzi non avevano il rimando della propria immagine da parte degli adulti che avrebbero dovuto accompagnarli nella crescita. 

Potevano scomparire con facilità, lasciandosi dietro il fallimento della scuola e la solitudine colpevole e disperata dei genitori. 

Avveniva allora come ora una forte polarizzazione tra i giovani adatti alla competizione, quelli sempre a loro agio con le parole, col corpo, ora aspiranti tutti ad essere influencer e gli altri che scelgono la strada di una ostinata protesta  non riconoscendosi nel mondo fuori dalla zona confort della propria camera. 

I primi sono quelli adatti al mondo che cambia, che sanno vivere senza difficoltà il presente, gli altri vivono forse in una dimensione temporale più ampia e profonda. 

Sono i lumicini che vengono da un passato lontano e che cercano di raggiungere un futuro attraverso una muta ribellione contro un eterno presente privo di speranza.

di Grazia Satta

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