Intervista a Matteo Delbò: Testimonianza diretta del Filmmaker sul conflitto Israele-Palestina

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Ho avuto il piacere e la possibilità di intervistare il Fotografo e pluripremiato Filmmaker Matteo Delbó. É tornato pochi giorni fa dalla Palestina e dai territori in conflitto, portando con sé la testimonianza di un’esperienza cruenta quanto necessaria ai fini dell’informazione. 

Quali sensazioni hanno accompagnato il viaggio d’andata e che cosa ci puoi raccontare del tuo arrivo in Palestina, in termini di primo impatto?

Era una sensazione di lutto e disgrazia. Quello che era accaduto, era una operazione militare senza precedenti da parte di Hamas; chi conosce le dinamiche e le modalità di reazione di Israele, sapeva che la reazione sarebbe stata violentissima. Si intravedeva che il prezzo sarebbe stato, in termini di sangue e di morti civili, enorme. Dall’altro lato c’era la sensazione di incredulità, perché, quello che è successo, essendo io stato a Gaza diverse volte, era impensabile. La struttura militare che cinge l’assedio alla più grande prigione a cielo aperto del mondo, sembrava inattaccabile. Le condizioni di sicurezza, di controllo e monitoraggio continuo dal muro, attraverso un sistema sofisticato di camere, postazioni di osservazione e droni che sorvolano Gaza dalla mattina alla sera, mai avrebbero reso immaginabile quello che di fatto poi è successo. Tutto questo attiva la domanda fondamentale: come è potuto accadere? E come è possibile che ci sia stato un buco di Intelligence senza precedenti nella storia militare di Israele?

Matteo Delbò

Non siamo arrivati in Palestina, siamo arrivati ad Amman in Giordania perché non si poteva volare su Tel Aviv. Poi, attraverso il confine Giordano, abbiamo raggiunto Gerusalemme. La città era una Ghost Town, tutta la parte vecchia era stata chiusa, il giorno dopo è stata riaperta ma con ingressi contingentati e con controlli di sicurezza asfissianti. Quello che si percepiva era un enorme shock, e che appunto fosse successo qualcosa di irreversibile.

C’è un episodio, fra quelli che hai vissuto durante la tua permanenza, che trovi sia necessario raccontare alle persone?

Gli episodi sono diversi. Una cosa che mi ha colpito, è che questo attacco è avvenuto in maniera talmente improvvisa che, tutti i lavoratori gazawi che lasciano la Striscia ed attraversano il confine, per lavorare in Israele, sono rimasti bloccati. Fondamentalmente sono stati presi in custodia dalla Polizia e messi nelle carceri israeliane. Dopo qualche giorno, quelli ritenuti meno pericolosi sono stati abbandonati in West Bank (Cisgiordania, nda). I lavoratori gazawi che sono impiegati in Israele sono circa 20.000, quindi numeri enormi, di gente rimasta bloccata senza l’opportunità di tornare a casa. Siamo andati in West Bank, a Ramallah, per incontrare alcuni di loro che erano ospitati nelle strutture alberghiere messe a disposizione dall’autorità palestinese. L’incontro è stato forte come impatto perché si parla di gente poverissima e in condizioni di salute estremamente precarie. Quando siamo entrati in questa stanza abbiamo incontrato un uomo che sembrava avere una gamba in cancrena, con un gesso di fortuna. Una scena inquietante. Un altro uomo aveva una sacca attaccata alla pancia che conteneva escrementi, due bambine accompagnate dal padre, avevano delle mani con ferite gravi, mani senza dita. Un altro uomo ancora, quando lo abbiamo intervistato ci ha detto che aveva avuto tre attacchi di cuore. Siamo entrati in una sorta di lazzaretto. Il fixer (persona del luogo e/o mediatore/accompagnatore, nda) ci ha spiegato che effettivamente le persone che attraversano il confine per venire a lavorare in Israele, sono persone  che devono essere ritenute dall’apparato di sicurezza israeliano, completamente incapaci di offendere. Questo è il motivo per cui ammettono il passaggio solo a persone in condizioni di salute disperate. É una piccola storia, dentro alla grande storia. Dà l’idea di quanto sia tutto surreale all’interno di questo inesauribile conflitto. Persone in queste condizioni, pur di nutrire le loro famiglie vanno a lavorare in Israele. Per quanto prendano poco, è sempre di più rispetto a quello che guadagnerebbero dentro Gaza. Immaginavo l’uomo con la sacca di urina attaccata alla pancia che ogni giorno, attraversa questo confine militarizzato, impiegandoci ore per arrivare sul posto di lavoro. Poi, scoppia un conflitto e non riuscirà più a tornare a casa.

La morte e la distruzione sono, ovviamente, le protagoniste indiscusse delle guerre. La prima non fa differenze di classe, di origini e colore della pelle, la seconda è il mezzo attraverso il quale raggiungere la prima. Che rapporto hai con la paura, in questo tipo di esperienze? E che cosa hai visto negli occhi di un popolo resiliente, come quello palestinese?

Il rapporto che ho io con la paura, è il rapporto di un professionista che fa il suo lavoro e cerca di farlo al meglio. La necessità è quella di limitare al massimo i rischi, così come è una necessità il raccontare il più possibile, per fare un lavoro di qualità. Se si parla di paura, bisogna invece immaginare la paura che può provare il popolo palestinese dentro Gaza. É una paura che andrebbe messa a fuoco, perché significa vivere sotto i bombardamenti in un territorio chiuso dal quale non c’è via d’uscita. La paura diventa terrore. É un’esperienza di terrore. Bisognerebbe ragionare su cosa significa creare una prigione a cielo aperto, per più di 2 milioni di persone che viene costantemente bombardata. La riattivazione del conflitto è avvenuta con regolarità negli ultimi anni e questo significa, per la popolazione civile, una pioggia di bombe. É difficile da immaginare ma bisognerebbe fare una riflessione. Su cosa è o non è accettabile, quali sono i limiti che vanno rispettati anche nei conflitti. Anche dove non si cerca e non si trova una soluzione diplomatica, bisogna considerare che dentro quel territorio esiste una popolazione civile che non può essere punita indiscriminatamente.

Dall’inizio del conflitto sappiamo che gli aiuti umanitari sono scarsi e molto limitati. Ci sapresti dire la situazione attuale e le difficoltà annesse ai blocchi?

PC. Middle East Eye

I dati che abbiamo a disposizione da varie fonti, come Save The Children,  Reuters, ONU, sono che dal 21 ottobre sono entrati 84 camion. Per interpretare questo dato, bisogna fare riferimento ad un normale giorno a Gaza prima del conflitto: sappiamo che ne entravano 500 quotidianamente. In una situazione del genere, dove manca cibo, acqua, gasolio, medicine, elettricità, quello attuale è un numero risibile. Gli aiuti non possono raggiungere nemmeno lo Shifa Hospital di Gaza, il più grande ospedale di Gaza, perché la Striscia è tagliata in due. Le ambulanze non si muovono senza la benzina; gli ultimi dati dicono che attualmente si riesce a sfamare una persona su sei. Dati agghiaccianti che ci dicono chiaramente quale sia l’intento di questa operazione militare; non c’è altra ragione se non quella di stremare e terrorizzare la popolazione. Questo è l’aspetto più atroce dopo i bombardamenti.

L’emotività e la rabbia in situazioni del genere devono lasciare spazio anche al pragmatismo. In che modo secondo te gli italiani possono rendersi utili ed aiutare?

In generale non essere indifferenti. Per non esserlo, bisogna comprendere ciò che sta accadendo e quindi informarsi. Non dare nulla per scontato. La propaganda bellicista è sempre più violenta e aggressiva. Ed è una propaganda di parte, quindi prendere un’altra parte, informandosi e cercando di rimanere aggiornati rispetto a questo conflitto che è molto complesso. Da un lato serve essere curiosi, sforzarsi di leggere e di capire, di cercare fonti, di chiedere a chi del conflitto ha esperienza. Dall’altro lato manifestare è importante. Perché le manifestazioni che si stanno svolgendo ad oggi in tutto il mondo, sono una forma di pressione rispetto ai governi che hanno preso una posizione, in Occidente, completamente a favore di Israele. In un momento in cui è anche comprensibile dopo quello che è successo, questa posizione è falsata da una precedente, complice, assuefazione alla politica dell’occupazione. Leggere ciò che sta accadendo oggi, senza parlare dell’occupazione è una forzatura della realtà che impedisce di comprendere, la realtà stessa. Quindi manifestare è importante, conoscere la realtà dell’occupazione di un territorio da parte di uno Stato sovrano, nei confronti di un altro Stato, che dovrebbe essere altrettanto sovrano, è un obiettivo che chiunque voglia fare qualcosa dovrebbe porsi.

Anche il tema degli aiuti umanitari è fondamentale. Bisogna agire per movimentare i governi occidentali per fare pressione su Israele. Tutto quello che è possibile fare, sostenendo organizzazioni umanitarie è importante. Il diritto della popolazione civile a ricevere questi aiuti, è prioritario ma viene violato, non rispettando le regole internazionali. É un’atrocità inammissibile.

Matteo Delbò ha diretto il documentario “Erasmus in Gaza”. Ha vinto la Ninfa D’oro nella categoria “miglior documentario” al 60’ festival internazionale della televisione di Monte Carlo.

di Sarvish Waheed

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