“Mi casa es tu casa” a Ferrara è rinato un progetto sul integrazione

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A Ferrara è rinato un progetto sperimentato con successo una quindicina d’anni fa a Portomaggiore, una cittadina che vanta la percentuale più alta di immigrati di tutta la provincia. Immigrati soprattutto pakistani.

L’accoglienza in questa località non fu molto facile nei primi anni del duemila e si arrivò ad un punto di crisi tale che un numero consistente di cittadini si organizzò in un comitato che raccolse le firme per la cacciata degli stranieri dal territorio

I pogrom sono sempre un pericolo attuale. 

Allora la tensione era tangibile per strada, a scuola, nei negozi, negli spazi pubblici compresi quelli destinati ai giochi dei ragazzi.

In momenti difficili si devono trovare tutte le risorse necessarie per contrastare la perdita del lume della ragione. 

Un gruppo di appartenenti all’associazione inter etnica PortAmico di cui faccio parte, si divertì un sacco osservando come le paure si nutrano di niente e cercò quindi tutti i modi possibili per far sì che, come i brutti sogni, si dissolvessero al mattino senza quasi lasciare tracce. 

Fu un periodo incredibile di incontri, di curiosità interculturali, dibattiti, sperimentazioni stilistiche sartoriali, mangiate e risate. Imparammo a dire Ramadan e non Ramadam e a cucinare il cous cous. Imparare a mangiarlo fu veramente molto facile.

La cosa più incredibile fu constatare che per trovare una via per la conoscenza reciproca non bisognava scomodare i massimi sistemi, ma semplicemente muoversi per piccoli passi e possibilmente divertendoci tutti, che non guasta mai.

Tra i tanti piccoli progetti che sperimentammo allora uno mi è rimasto caro e in questo settembre ostinatamente estivo è ripartito a Ferrara in un contesto, la Cohousing di via Ravenna 228 a Ferrara, che merita un futuro approfondimento a parte.

“Mi casa es tu casa”, così si intitola l’iniziativa, è qualcosa di genialmente semplice.

Una famiglia, tradizionale, queer, composta da un/a single, multietnica, proveniente da altri continenti, ma perché no, da altri pianeti e galassie, si candida alla conduzione di un evento. Cioè apre le porte della propria casa ed invita degli ospiti, quanti materialmente può contenerne la sua cucina e prepara per loro un pranzo od una cena con le pietanze tipiche della propria regione.

Il significati di questo evento sono tanti: conoscerci, stare bene insieme, perché con le gambe sotto un tavolo ed un piatto pieno di cose buone davanti è sempre piacevole stare. 

C’è però un significato più profondo in tutto ciò: la condivisione di uno spazio casalingo dove c’è il focolare, dove si cucina, si trasforma il cibo per renderlo più buono, si guarniscono i piatti perché è un onore offrirli a qualcuno. 

È il modo più evidente per dire all’altro che tieni a lui alla sua vita e col tuo cibo contribuisci a renderla più lunga e sana. È la cura.

Per l’organizzazione ci sono dei passaggi molto importanti da rispettare: la casa viene aperta a prescindere dalla sua bellezza o modestia. Non c’è una casa brutta quando è arricchita da una tavola imbandita. Tutti devono stare a tavola insieme. Non ci sono argomenti di conversazione vietati e meno che meno imposti. Se tra gli ospiti ci sono amici di amici di amici, alla fine sconosciuti, è ancora meglio. Le relazioni nascono si intrecciano e si consolidano.

Non si chiede all’ospite un investimento economico nell’organizzazione e quindi ognuno degli invitati deve contribuire alle spese sostenute.

Gli organizzatori che si sono candidati a questa nuova edizione sono una mamma ed i due figli, un maschio ed una femmina di dodici ed undici anni di origine pakistana.

Una famiglia particolare: mamma pakistana bimbi italo pakistani che dopo qualche importante avventura affrontata con coraggio e determinazione, stanno finalmente organizzando una vita con i ritmi giusti.

La loro piccola casa non avrebbe permesso la partecipazione di più di un paio di ospiti e l’accoglienza della Cohousing e la motivata energia organizzativa di Alida Nepa, sono state determinanti per la riuscita. Le tanto citate sinergie che fanno miracoli.

Gli inviti sono avvenuti tramite passa parola nelle varie chat e nei gruppi dei quali tutti noi facciamo parte.

Tre tavole apparecchiate come fosse un pranzo di domenica: due nel salone comune ed una terza nel giardino che si affaccia sul Po di Primaro. 

Una cornice di verde e fiori.

Un profumo di cibo buono, uno sbirciare il contenuto delle pentole nell’attesa di metterci a tavola. Gesti familiari e allegri.

I ragazzi orgogliosi del loro ruolo raccontano come sono state cucinate le varie pietanze, quali spezie sono state usate, – Ci siamo ricordati che qualcuno è vegetariano ed abbiamo preparato qualche pietanza senza carne – dicono. 

A tavola c’è anche il vino. Nelle precedente edizione evitavamo di portarlo, ma dal momento che sono occasioni di conoscenza reciproca delle diverse abitudini, ci è sembrato discutibile ed anche un tantino ipocrita negare dei particolari che fanno parte di una cultura. L’unica cosa vietata è l’antropofagia.

È emersa un’allegra babele che in fondo è la condizione naturale di ogni essere umano.

Era un continuo chiedere a Nazia come si dicesse buon appetito in urdu, uno stupirsi di qualcuno che il pollo preparato in quel modo l’aveva già  mangiato e poi il chapati? quanto assomiglia alle nostre piadine! È facile da fare, lo provo appena ho tempo. Eh sì il pane è buono ovunque e quasi sempre è tondo. La sua forma ricorda il mondo e mangiarlo mette tutti d’accordo.

I ragazzi sono entusiasti sembra che capiscano i ritmi della cohousing meglio di noi. In fondo chi ci vive e sperimenta un nuovo vicinato che in paesi come il Pakistan ancora è presente nelle forme più arcaiche: si orientano bene, sanno in quale appartamento vive il cane col quale hanno familiarizzato, hanno un grande rispetto per la più anziana delle presenti, una simpaticissima novantenne che fa festa a tutti i piatti e si complimenta con Nazia e scherza coi bambini difendendoli quando alcuni di noi indagano sulla scuola e i sogni per il futuro della loro vita.

Rido pensando che anche lei, fino a ieri, sosteneva che gli stranieri devono tornarsene tutti a casa loro. Fino a ieri.

di Grazia Satta

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