MSNA è un acronimo che vuol dire “Minori Stranieri Non Accompagnati”

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Sono quei minori stranieri che si trovano in Italia privi di genitori o di altri adulti legalmente  responsabili in base alle leggi vigenti nell’ordinamento italiano. 

Per loro, il Decreto Legislativo n.47 del 2017, la c.d. “Legge Zampa” ha istituito la figura di  tutore volontario, definendola come: “un privato cittadino che dà la sua disponibilità ad  esercitare la rappresentanza legale di un minore straniero non accompagnato, ovvero  giunto in Italia senza alcun adulto di riferimento”. 

L’obiettivo del legislatore è di far sì che il tutore diventi un mentore per ragazzi  inevitabilmente smarriti e a rischio di diventare invisibili. 

Al di là delle buone intenzioni, il meccanismo dell’attribuzione delle tutele attualmente in  Emilia Romagna si è complicato ed ha subito un notevole rallentamento. Ad esempio non  si tiene conto della distanza geografica tra tutori e minori e può capitare che ad un tutore  di una città venga assegnato un minore ospitato in un’altra città lontana con l’inevitabile  rinuncia al ruolo. 

Come tutrice MSNA ho avuto in tutela ufficiale con tanto di giuramento e firma solo un  minore. Dal punto di vista giuridico, senza questo atto ufficiale, non si può esercitare  legalmente alcuna tutela e questo dato sarebbe ottimo se avesse significato l’assenza di  minori stranieri non accompagnati nel territorio italiano, invece sono 1.898, pari al 8% del  territorio nazionale, i minori presenti in regione secondo un’indagine conoscitiva del  novembre del 2023. Di contro, sono circa 200 i tutori formati e iscritti all’albo.  

La differenza tra teoria e pratica  

L’INIZIO  

Il primo caso è stato un ragazzo albanese presentatomi come molto difficile, quasi  anaffettivo, come qualcuno ha detto, per alleviarmi la frustrazione.  

Naturalmente non è mai stato ufficializzato alcun incarico con giuramento e firma.  I tempi della burocrazia sono sempre stati un grosso problema per tutori e minori. Lui era un ragazzo particolare che non poteva stare in un recinto d’accoglienza fatto da  braccia che gli si protendevano con attenzione impacciatamente affettuosa.  Non era anaffettivo, semplicemente non aveva bisogno di una tutrice inesperta, per un  caso simile, come lo ero io.  

Lo infastidivo e non rispondevo alle sue richieste economiche che dopo qualche tempo  aveva iniziato a manifestare. 

Era un bravo ragazzo, adulto, quasi vecchio, per le esperienze di vita accumulate nella  sua breve, ma intensa esistenza.

Sicuramente era tecnicamente informato del fatto che in Italia i minori sono davvero  minori e che, se non accompagnati, hanno diritto a importanti tutele. Essere un MSNA  costituiva un’occasione per farsi seguire umanamente e legalmente in un progetto  migratorio difficile.  

Dopo l’esperienza fallimentare con me, non ha voluto un altro tutore, ma è riuscito  ugualmente a realizzare il suo progetto di vita, a lavorare e a raggiungere i suoi amici,  molto importanti per lui, in un’altra città.  

Ho imparato da questa esperienza che essere minori era, in alcuni casi, un progetto,  un’opportunità di ingresso in Europa che avrebbe aiutato le famiglie d’origine rimaste a  casa. 

Essere minori dava la sicurezza di non essere respinti. 

I giovanissimi coinvolti in tale piano, avevano circa 15/16 anni d’età e provenivano  prevalentemente dall’Albania e dal Bangladesh. 

Il meccanismo era semplice: raccolta fondi presso i congiunti, contatti con organizzazioni  varie di passeur, spesso amici o parenti, percorsi difficili, tappe pericolose con rischio  continuo di ritorno al via.  

Alla fine di tutte le traversie varie, l’arrivo a destinazione con presa in carico da parte delle  autorità italiane in quanto minori, costituiva un bel traguardo. 

I candidati a questo percorso erano ragazzi svegli, sani, con ottime qualità di resistenza,  intraprendenza e autonomia.  

Le famiglie di origine li sceglievano tra i migliori e per la realizzazione del progetto  raccoglievano le risorse economiche da membri di estesi gruppi parentali con le quali,  raggiunta l’età giusta, li avviavano verso un percorso migratorio.  

Al compimento della maggiore età, in Italia avrebbero potuto cominciare a lavorare,  estinguere il debito e inviare così denaro alle famiglie. 

L’arrivo dall’Albania era particolarmente semplice, poco più di un’ora di aereo e  l’accompagnamento da parte di un connazionale alla più vicina caserma dei carabinieri  dove rivolgersi per dichiararsi minori soli. 

L’importanza dell’ascolto:  

Abir  

L’ultima avventura come tutrice MSNA è stata con un ragazzo del Bangladesh: Abir. Abir è fuori dagli schemi dello straniero afflitto e rassegnato, perduto in terra straniera.  È allegro, non trasmette alcun senso di smarrimento, nostalgia e tutti quei sentimenti che  noi immaginiamo in chi parte.  

Le prime uscite per familiarizzare sono state in centro città sotto Natale. Con noi c’era  sempre un suo amico e connazionale. Una cioccolata, due chiacchiere in un italiano  ancora incerto.  

“Che bello vivere così!” Mi dice davanti ad un giocoliere, un busker invernale che si  esibiva davanti al duomo. “In Italia si può lavorare così e guadagnare?” mi chiede Abir. “Sì, si può, ma non è tanto facile e bisogna essere veramente bravi.” 

In seguito le passeggiate si sono diradate. Non coincidevano gli orari con gli impegni  scolastici e giustamente le sue ore libere erano più gradevoli se trascorse con qualche  amico della sua età. Qualche volta sono rimasta al freddo più di mezz’ora per sentirmi  dire al telefono di scusarlo, ma si era dimenticato dell’appuntamento. In queste situazioni whatsapp è stato un grande alleato che ci ha permesso di mantenere  vivo il contatto giornaliero con qualche arrabbiatura in meno da parte mia. 

Arriva la seconda ondata di Covid. La solitudine e l’isolamento sono pesanti per tutti.  Un raffreddore può scatenare il panico, può essere il virus. C’è di nuovo tanta paura e solitudine.

Non sempre sappiamo gestire l’ansia specialmente in un periodo di tale emergenza,  peggio se siamo stranieri, lontani dalle famiglie in un Paese di cui capiamo poco. Una sera tardi, ero già a letto, ricevo una telefonata da Abir.  

Piange disperato, è malato, mi dice che ha un gran mal di testa, la febbre e nessuno lo  aiuta. Il ragazzo sorridente, positivo e propositivo è scomparso ed al suo posto c’è un  17enne impaurito che si sente solo e chiede aiuto.  

Appena possibile, il giorno dopo, lo raggiungo alla struttura che lo ospita. 

Osservando tutte le norme di distanziamento, riesco a vederlo e parlo con lui e con gli  educatori che lo seguono.  

Abir è nel panico e non si fida più di nessuno. Gli educatori stanno facendo tutto il  possibile per rassicurarlo, ma con l’ansia che lo divora, ragionarci è molto difficile.  Affrontiamo tutti insieme il problema con molta, molta pazienza.  

Covid o no, vado a trovarlo tutti i giorni.  

Cerco di tranquillizzarlo. Parliamo ancora con difficoltà, ma proseguiamo con  cocciutaggine il dialogo. E con la cocciutaggine arriva la fiducia in un sorriso improvviso  che coinvolge me e tutti quelli che gli sono stati vicini in questi giorni difficili.  Alla fine, abbiamo la conferma che Abir non ha il Covid.  

In questi giorni difficili ho capito quanto sia importante lavorare in collaborazione con gli  educatori. 

Non sono mai diventata la tutrice ufficiale di Abir per i soliti ritardi amministrativi e il  raggiungimento della sua maggiore età non ha certamente cambiato il rapporto di tutela  morale senza giuramento e firma. 

Abir è diventato per me una specie di “fizu’e anima” figlio dell’anima , come si direbbe in  lingua sarda. Era nata una relazione naturale di interesse reciproco fatta di affetto discreto  e leggero.  

Allentate le regole del distanziamento sociale abbiamo cominciato le lezioni di italiano  all’aperto nel giardino della struttura di cui era ospite. 

Non ho mai avuto una formula vincente per insegnare l’italiano ancor meno ad uno  studente straniero. 

Ho pensato che raccontare la propria storia a volte motiva al comunicare. Abir la sua storia non l’aveva mai raccontata e non pensava che per qualcuno sarebbe  stato interessante ascoltarla. 

“Dai Abir, raccontami il tuo viaggio”. E pensavo: “Quello vero, non quello che hai raccontato quando sei stato accolto come minore, quello che nessuno dice e che nessuno ascolta, perché è un groviglio di contraddizioni, a volte per noi difficile da decifrare. Quelle che conosci solo tu”.  

Sarebbe semplice se i migranti corrispondessero all’immaginario in cui necessità,  povertà, guerra, fame fossero le uniche motivazioni.  

A volte non è così. A volte l’avventura è l’eterno folle volo di Ulisse. 

Il suo viaggio verso l’Europa non è stato improvvisato ed urgente, é stato un progetto  familiare, condiviso da tutta la sua cerchia parentale. Lui è stato scelto perché è un tipo in  gamba, in grado di affrontarlo un viaggio simile.  

Sa adattarsi e sa sorridere. 

La famiglia ha investito su di lui notevoli risorse economiche. 

Ha pagato con la somma raccolta una rete di persone, anche parenti, che di volta in volta  si facevano carico di un segmento di viaggio che è durato mesi.  

Una specie di avventura nel mondo, in cui si è spostato in aereo, treno, macchine private,  a piedi, alloggiando in strutture impensabili, a volte nascondendosi nei boschi.  Pagando per corrompere, lasciandosi sfruttare oppure accettando la sconfitta di essere  rimandati indietro, per poi riprendere il cammino daccapo. 

Con lui, sono partiti una manciata di ragazzi, tutti maschi.  

Il gruppo si è diviso, ricomposto, allargato, ridotto a seconda dei nodi di sosta della  complesso itinerario di viaggio durato circa otto mesi. 

Le lezioni di italiano, con questa motivazione a raccontare, iniziano e proseguono alla  grande.  

Gli strumenti di lavoro a nostra disposizione sono un quaderno, due” smartphone con  connessione internet e google translate.  

Intuiamo le parole che mancano alla costruzione di una frase, di una sensazione,  verifichiamo la traduzione dall’italiano, dall’inglese, dal bengali.  

Esultiamo ogni volta che siamo d’accordo sul significato di una parola e un pensiero  compiuto prende forma. Si cuciono gli strappi di un tessuto. 

Con questo sistema riusciamo a ricostruire un quadro inquietante che Abir ha urgenza,  ma timore di condividere.  

Grecia, fragole, pistola, lavoro, tanto lavoro, niente soldi, caldo, freddo, poca acqua, sete  sporcizia, tanti lavoratori del Bangladesh. Sono le parole che continuava a ripetere  durante una delle nostre conversazioni sotto un albero.  

Quando abbiamo urgenza di capire riusciamo a superare le barriere linguistiche e non  siamo più uno di fronte all’altra, ma camminiamo insieme nella stessa direzione. 

Manolada, Manolada, diceva ripetutamente.  

Scrivo la parola.  

Dov’è questo posto?  

Cerco in rete per capire qualcosa.  

Manolada si rivela la tappa più assurda e drammatica del viaggio, una tappa  evidentemente programmata dall’organizzazione di passeur nella quale possono fare  cassa sulla pelle di questi ragazzi. 

Manolada è un villaggio vicino alla costa ionica del Peloponneso.  

Qui, i ragazzi che vogliono raggiungere l’Europa, sono costretti a sostare diventando  manovalanza a costo quasi zero per la raccolta delle fragole.  

È una tappa obbligatoria che dura più di tre mesi.  

Mi racconta che la baraccopoli dove alloggiava era piena di migranti del Bangladesh che  vivevano senza acqua corrente, luce e gas.  

Le condizioni igieniche erano spaventose.  

Per lavarsi e fare il bucato erano costretti a recarsi in un fiume poco distante.  Le baracche erano freddissime in inverno e caldissime già dalla primavera.  Mai un controllo di polizia.  

Lì non c’era alcuna ansia di nascondersi.  

Sembrava di essere in un buco spazio temporale. 

Unica nota positiva, l’aiuto di alcuni abitanti della zona che procuravano loro cibo e  vestiti.

La produzione agricola, ottima per quantità e qualità, è destinata prevalentemente  all’esportazione.  

Le fragole di Manolada sono famose nei mercati d’Europa, ma i trattamenti riservati ai  lavoratori – ma forse dovremmo scrivere schiavi – sono brutali.  

Ci sono state sparatorie da parte dei caporali con numerosi feriti anche gravi.  Denunce e processi si sono conclusi con un nulla di fatto.  

Nessun colpevole per nessun reato. 

Abir racconta interrompendosi ogni tanto con un italianissimo “mamma mia!” 

Da Manolada sino al suo arrivo in Italia proseguiamo il viaggio nella memoria insieme.  Amir è sollevato, cerca con me freneticamente su internet le notizie e le immagini dello  sfruttamento dell’oro rosso di Manolada.  

Sembra che il ricordo che ha racchiuso nel cassetto degli incubi, ora esiste anche per  qualcun altro e il peso può essere condiviso. 

Cresce la sua competenza nella lingua e la fiducia nei miei confronti.  Scrive in italiano sul suo quaderno, conta le pagine, le rilegge. Ogni frase è una  costruzione meticolosa di parole, traduzioni, ricordi che affiorano.  

Esistono anche fuori della sua mente. 

Deve riconoscere e pronunciare il suo pensiero prima di trasferirlo sul foglio.  La scrittura è ordinata ed elegante, e conferma che in Bangladesh ha frequentato con  profitto la scuola. 

Festeggiamo il 18esimo compleanno insieme.  

Ma i nodi nell’irregolarità dei documenti che rendono difficilissimo il suo percorso verso  l’autonomia lavorativa sono sempre più stretti. Si spezza il tempo, non c’è più voglia di  scrivere, di progettare. Dalla situazione di minore protetto si ritrova maggiorenne senza  documenti in regola. 

Ottenere i vari certificati dal Bangladesh é impossibile per la farraginosità della burocrazia  e soprattutto per la corruzione di tanti funzionari. 

Arrivano altre urgenze.  

Ogni volta che ci vediamo mi ricorda l’elenco dei documenti mancanti, cresce la sfiducia  verso coloro che si sono sempre occupati di lui, ma che ora non riescono a dargli  risposte. Non riesce a convincersi che non è colpa degli educatori.  

Abir non ha il passaporto, non l’ha mai avuto, ma il Bangladesh ha sempre ignorato  l’urgenza della sua richiesta. Serve una documentazione particolare, un kit amministrativo  introvabile. Individuiamo l’ufficio giusto in una città vicina e, in corsa contro il tempo,  riusciamo ad ottenere queste assurde carte. Può sperare in un lavoro. Una follia.  

Abir trova lavoro a Venezia. Parte e non lo sento più. 

Cerco di contattarlo via whatsapp, ma niente.  

Un giorno su Instagram mi compare un nuovo follower. Ha il suo volto, ma un altro nome.  Lo seguo anche io. Scorro le foto pubblicate.  

L’ultima è della primavera del 2022 e lo sfondo è un prato verde.  

Pochi giorni fa, mi ha chiamato per salutarmi.  

Lavora in una trattoria a due passi da San Marco e mi assicura che sta bene.

di Grazia Satta

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