“Tutto è crollato. Ma ho ancora speranza”: il coraggio delle giornaliste afghane sotto il regime talebano
Da quattro anni a questa parte, le giornaliste afghane vivono sotto una delle repressioni più dure al mondo. Con l’ascesa dei Talebani nel 2021, il lavoro delle donne nei media è stato progressivamente ridotto al silenzio: radio chiuse, stipendi sospesi, minacce quotidiane, censura, e colleghi scomparsi. Eppure, molte di loro continuano a lavorare, in segreto, spesso da casa, usando pseudonimi, rischiando la libertà per continuare a raccontare la verità.

Samira, ad esempio, ha scelto di seguire le orme della sorella maggiore, anche lei giornalista, uccisa anni fa. Dopo la caduta di Kabul, ha continuato a condurre programmi radiofonici su salute e maternità, finché le autorità talebane hanno vietato del tutto le voci femminili in radio. “Quel giorno mi sono spezzata”, racconta. “Ma spero ancora che un giorno la mia voce possa essere ascoltata di nuovo.”
Secondo un rapporto del marzo 2024, in 19 province afghane su 34 non è rimasta attiva nemmeno una giornalista donna. Eppure ci sono ancora voci isolate che resistono. Humaira, in una provincia centrale, è rimasta l’unica reporter donna. Spesso deve aspettare settimane per ottenere un’intervista, e in alcuni casi le viene negato l’accesso alle informazioni se non è accompagnata da un uomo.
A Kabul, Rohafza, 22 anni, lavora per una delle radio private più seguite del Paese. Ogni giorno entra in studio sapendo che potrebbe essere il suo ultimo giorno di lavoro, e che con lei perderebbero l’unica fonte di sostentamento anche i suoi familiari. La legge talebana impone restrizioni severe: vietati i programmi culturali, cancellati i contenuti di intrattenimento, ridotti gli stipendi. Tuttavia, la sua trasmissione — che manda in onda lezioni scolastiche registrate da insegnanti donne — raggiunge oltre un milione di ascoltatori, soprattutto ragazze che non possono più andare a scuola. “Cerchiamo di dare loro speranza attraverso le storie di altre donne che, anche chiuse in casa, non si sono arrese”, dice.
Dal 2024, le stazioni radio ricevono lettere minatorie dai servizi segreti talebani, che segnalano ogni parola “sospetta” andata in onda. La legge sulla “Promozione della virtù e prevenzione del vizio”, ufficializzata ad agosto, rappresenta la stretta più dura sulla libertà di stampa. Secondo l’articolo 13 della legge, la voce femminile è considerata awrah, ovvero qualcosa che deve essere nascosto. È una reinterpretazione estrema dell’Islam che non trova fondamento nei testi originali, ma che viene usata per escludere del tutto le donne dalla sfera pubblica.
In molte redazioni, le giornaliste non sono licenziate ufficialmente, ma obbligate a lavorare da casa per non farsi vedere da ispettori talebani. Somaya, madre e conduttrice di programmi sanitari, registra ogni puntata da casa sua per inviarla alla redazione, dove il direttore ha deciso di non far entrare più nessuna donna “per evitare problemi”.
In alcune aree del Paese, come nel nord-est, la situazione è ancora più cupa. Aisha, 23 anni, lavora come reporter per una testata accessibile solo tramite VPN. Vive in totale clandestinità, non conosce nemmeno i nomi dei suoi colleghi. “Dire la verità qui significa rischiare la prigione o la morte”, dice.
Nella città di Herat, invece, la legge non è stata ancora applicata in modo rigido, ma la libertà resta limitata. Durante un evento pubblico nel 2024, alle giornaliste è stato impedito di coprire l’iniziativa fino a quando la folla non si era dispersa — quando ormai non c’era più nulla da raccontare.
Queste donne, nonostante tutto, continuano a raccontare l’Afghanistan dall’interno, sapendo di rischiare la vita ogni giorno. Per i Talebani, una voce femminile è un pericolo. Per queste giornaliste, invece, è uno degli ultimi spazi di libertà.
Fonte zantimes