Per arrivare a Bariloche ci sono volute circa 15 ore di volo distribuite in tre tappe. Un viaggione in cui si perde completamente la nozione del tempo e dello spazio.
Il pianeta Terra assume le sue dimensioni reali, cioè quelle di un granello di polvere, e il tempo mescola stagioni, durata del giorno e della notte in un batter di ciglia.

Check in, controlli fino alle scarpe, in nome di un’assurda sicurezza. Non ho mai avvertito la presenza di alcun pericolo che agita gli schizofrenici sistemi di sicurezza.
Gli aeroporti sono abitati da tutta quella massa di gente comune che vive sul pianeta, che si lascia scivolare sulla sua superficie perché è inevitabile farlo. Una moltitudine dai passi silenziosi. Guardo i loro, i miei piedi dentro scarpe tutte diversamente uguali. Comode, un po’ sformate, autonome dal resto dell’abbigliamento. Affettuosamente tozze. Mi infondono speranza per il genere umano che, almeno nei piedi, ha acquisito il senso di disubbidienza nei confronti di qualunque moda, per affermare il piacere di camminare senza alcun ritmo rumoroso e militaresco dei passi. Lenti, veloci, pesanti, leggeri, sono tutti passi silenziosi.
Rifletto su queste piccole cose con la fronte appoggiata al finestrino dell’ultimo aereo, quello che da Buenos Aires ci porta in Patagonia. Sotto di me una regione brulla, ogni tanto un fiume, un lago che riflette l’imponente e perennemente innevata Cordigliera andina. Pochi paesi ricamati di strade ortogonali.
Il cielo è di un blu abbagliante.

Bariloche é una città e assurda con un’architettura tedesca che manco in Germania potrebbe essere tanto rigorosa. É una rinomata stazione turistica sciistica, una specie di Cortina d’Argentina. L’azzurro lago Nahuel Huapi e la cornice delle Ande aggiungono stupore alla sua bellezza.
Ha origini italiane, in particolare bellunesi. Una comunità di montanari temerari si è trasferita qui nella seconda metà dell’800.

Dopo la seconda guerra mondiale, ha ospitato numerosi nazisti fuggiti dalla Germania. Erich Priebke visse qui diversi anni e con un nome appena modificato in Erico Priebke, diresse per anni la scuola tedesca.
Il nome Bariloche deriva dal termine Mapuche che significa “popolo che abita dietro la montagna”.
La montagna è la catena delle Ande che, una parte dei Mapuche cileni, avrebbe attraversato per stabilirsi in questi territori.
Nella piazza del Municipio c’è il monumento a cavallo in onore di Argentino Roca, militare, ministro, presidente della repubblica che definiva i Mapuche invasori venuti dal Cile e sosteneva che l’unica soluzione possibile per risolvere il problema che creavano, fosse quella di “estinguerli, sottometterli o espellerli”.
Un monumento dalla vita difficile spesso cosparso di vernice rossa a ricordare i massacri in quella battaglia del deserto che deserto non era.

Ai piedi del monumento, sul lastricato, tanti nomi di desaparecidos col simbolo delle madri di Plaza de Mayo: il fazzoletto bianco annodato sotto il mento. Una folla silenziosa che non dimentica.
In questa strana città piena di cioccolaterie e di profumerie capita di incontrare qualche italiano che sentendo parlare la lingua ti ferma e ti racconta delle sue origini, di nonni veneti, toscani, venuti da un’isola dove prima si parlava italiano, ma ora è francese, che sia la Corsica? Una confusione geografica di mondi lontani ai quali rivolgono sguardi inutilmente nostalgici. Sono nodi umani che racchiudono tutta l’Italia in un pugno di parole.
Sentendo i racconti di questi oriundi italiani capisco perché ho bisogno di viaggiare. Viaggio per nostalgia, perché mi manca tutto, ho paura che tutti se ne vadano e mi lascino sola sull’isola. Ed allora vado in giro per perdermi e per trovare un sempre nuovo motivo di nostalgia che scacci il precedente, il più doloroso.
La Patagonia mi ha travolto con la nostalgia ancor prima che l’aereo atterrasse. Tempo e spazio si confondono nei ricordi di chi la abita senza radici, perché, da troppo poco tempo, qui si è fermato. Ma c’è anche un popolo che ricorda al mondo che qui esiste da sempre e qui vuole stare e camminare leggero sulla sua terra.
Bariloche incanta e confonde. Sembra una località sciistica per gente spensierata. Per un europeo è una città nordica, ma qui il nostro nord è il sud che precipita verso un meridione sconfinato, algido e stupendo.
Solo oltre Bariloche la Patagonia diventa davvero Patagonia.
La nostra è una Carovana organizzata dai Mapuche alla quale hanno partecipato attivisti latino americani e l’associazione italiana Ya Basta (1).
Ci muoviamo con furgoni a noleggio, accompagnati da un Lonco e dalla sua compagna, da una Machi con sua madre, ed altri Mapuche, distribuiti nei tre furgoni, che durante il viaggio ci raccontano la storia del loro popolo e le difficoltà che incontrano nella convivenza con i “bianchi”.
Il Lonco è il capo riconosciuto, un’autorità politica e spirituale di una comunità costituita da un gruppo di famiglie che abitano unità territoriali chiamati Lof.
La Machi è una sorta di curandera. Diventa tale perché individuata da giovane da una serie di segnali premonitori. Spesso sono dolori fisici una sensibilità eccezionale che permette di sviluppare una straordinaria empatia. Non accettare questi segni che vengono interpretati come responsabilità da assumersi all’interno di tutta la comunità, può condurre alla morte. La Machi è una figura molto importante destinata attraverso lo studio dei poteri curativi delle piante, e alla mediazione fra terra e cielo, ad essere un punto di riferimento per la cura di corpo e anima. Un ruolo prevalentemente femminile come Pachamama.
Sotto la loro guida percorriamo il corso del Chubut ospitati nei vari Lof

Il primo forte impatto visivo è dato dagli spazi immensi vuoti di qualsiasi antropizzazione. I nostri paesaggi sono chiusi, spezzati, interrompono la visuale e spesso non permettono, a chi li abita, pensieri leggeri e sconfinati. Noi pensiamo dentro geometrie impossibili che ci imprigionano. Qui esiste una lontananza a perdita d’occhio. Le strade sono spesso sterrate e i Lof dove veniamo ospitati sono fuori dall’idea di ambienti di un comodo progresso. Due realtà agli antipodi convivono in questo cammino alla fine del mondo e non so quale serva di più all’altra.
Noi occidentali ci siamo allontanati da tutto, rintanati sempre più all’interno di formicai labirintici. Qui si sta dentro il fuori, si abita l’universo e la solitudine non porta angoscia. Il silenzio è pieno di vento, colore e luce, rumore di acqua che scorre in una musica. Il cielo è sopra le nostre teste, di notte pieno di stelle.
Il fiume Chubut nasce nel versante orientale delle Ande, a sud del lago Nahuel Huapì e sfocia dopo un corso di 810 km nell’Oceano Atlantico. Un territorio vastissimo e spopolato che consente nella sua valle coltivazioni di grano, patate e segale. Nell’altipiano arido l’unica economia possibile è l’allevamento di bovini e ovini fondamentali per carne e lana. Un territorio difficile, ma ricco in legnami, minerali e petrolio che garantisce la sopravvivenza dei pochi abitanti consapevoli che la vita non è altro che un cammino costellato di doni in prestito. In questi spazi c’è la possibilità di vita per tutti. L’accumulo di ricchezze è un concetto sconosciuto.
Sullo sfruttamento di questi tesori si è da tempo scatenata una lotta drammatica da parte delle multinazionali che invece hanno chiara l’idea di possesso, sfruttamento e devastazione.
La Patagonia è la fine del mondo. Poche le strade, pochissimi i centri abitati. Si percorrono chilometri e chilometri senza vedere pali della luce, senza un rumore che non sia il vento o un verso di qualche animale.
Gli abitanti sono i viandanti della terra. Tanti immigrati dal mondo che in diversi momenti di povertà o alla ricerca di nuovi slanci vitali, hanno mollato gli ormeggi dalle loro realtà avare ed hanno cercato qui un nuovo sogno.
In queste terre gli unici che potrebbero reclamare qualche diritto di origine sono il popolo dei Mapuche.
Per tutta la durata del cammino le giornate sono cadenzate da momenti particolari. La cerimonia al sorgere del sole, quando seguendo Mauro, il nostro Lonco, che percuoteva una specie di tamburo, ci recavamo alla riva del fiume e spargevamo sulle acque in movimento manciate di semi. C’erano tutti i simboli del cerchio magico della vita: il sole, l’aria, l’acqua, la terra coi suoi semi che avrebbero sviluppato altra vita e nutrimento. Ogni giorno, disposti in un grande cerchio, dopo i saluti e ricordando reciprocamente i nomi e la provenienza si parlava, si raccontavano storie, si mettevano a fuoco i problemi, le ingiustizie. Si scioglieva l’equivoco di una falsa narrazione che presenta i popoli originari come delinquenti terroristi che si oppongono con la violenza al progresso che i bianchi vorrebbero portare in queste terre. Ci hanno raccontato della svendita delle terre a multinazionali tra le quali la trevigiana Benetton che partecipa attivamente alla cacciata dei legittimi abitanti e contemporaneamente erige un museo monumento perché non si perda la loro memoria. Le montagne con colori straordinari sono il segno evidente della presenza di tanti minerali preziosi ed anche questo è un boccone prelibato per l’ingordigia di chi ha in mente sfruttamento e arricchimento, ci spiegano. Ricchezze di minerali e fossili che dall’inizio della vita giacciono, come è giusto che sia, sono un’attrattiva per chi riesce a godere la bellezza, solo dietro un biglietto d’ingresso, imprigionata nella bacheca di qualche lussuosa esposizione. Loro su queste terre continuano il loro viaggio nella vita, leggeri, ringraziando con preghiere e riti tutta la bellezza nella quale sono immersi. E noi di tutto questo non sappiamo niente.
Durante una camminata per vedere un cimitero di dinosauri, Mauro ci indica un cespuglio: “Queste foglie amare ci hanno aiutato a combattere il Covid.” Strappa qualche fogliolina e ce la fa assaggiare.
Le recinzioni di filo spinato che si vedono, strizzando gli occhi in questi paesaggi dai colori tersi, abbaglianti, sono l’essenza della follia.
Terre deserte e divise, acque di fiumi e ruscelli deviate per irrigare piantagioni di alberi invasori che altrimenti qui non potrebbero crescere. E così insieme agli ovini da lana che soddisfano la moda del bello e a poco prezzo, si vedono distese di pini ordinati per il pregio del legno. Chi ha voluto tutto questo non ha tenuto conto del vento del clima secco e gli incendi riducono in cenere tutto creando pericolo per la vita di chi incontrano.
La narrazione ufficiale del Governo Milei attribuisce il tutto ai Mapuche delinquenti e terroristi.
Quella vera ci ricorda che sono i guardiani in lotta.
(1) L’associazione Ya Basta è nata in seguito alla sollevazione dei popoli indigeni del Chapas sotto la guida del subcomandante Marcos per portare solidarietà agli insorti. Il seguito si è occupata di aiutare concretamente popolazioni come i Curdi, i Palestinesi, i Mapuche e altri popoli in lotta per i propri diritti.
di Graie Satta.