Il velo islamico, La battaglia delle attiviste bianche e privilegiate dovrebbe essere quella di appoggiare la libera scelta di tutte.

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In questi anni ho avuto modo di avvicinarmi all’Islam in svariati modi, fino al punto che è diventata una delle mie principali materie di studio nel corso degli ultimi 13 anni della mia formazione, sia accademica che personale.

Ho iniziato i miei studi nel 2010, con un corso di Lingue e Culture dell’Africa mediterranea e dell’Asia, in particolare con un percorso incentrato sull’Ebraismo e l’Islam.

Poi è arrivato l’attivismo, attraverso un gruppo in cui molti fratelli e sorelle, ritornati all’Islam (così tra i musulmani viene chiamato chi si converte, secondo un principio per il quale tutti nasciamo intrinsecamente musulmani), si confrontavano su tematiche spirituali e sociali.

Nel 2019, invece, è arrivata la vera e propria esperienza di vita: per quasi due anni ho lavorato in Grecia con i migranti, presso l’isola di Chios. Essendo una gran parte dei rifugiati provenienti da paesi a maggioranza musulmana (come Siria, Palestina, Libano, Iraq, Somalia e Yemen), posso dire di aver vissuto per tutto quel periodo all’interno di una micro-comunità musulmana; abitavamo tutti nello stesso condominio, condividevamo pasti, momenti di svago, problemi della quotidianità, insomma, tutto.

In questi frangenti di vita condivisa, ho avuto l’opportunità di discutere con loro di diversi argomenti, dall’omosessualità, passando per la regolarità con cui viene svolta la preghiera e finendo con il velo.

Quello del velo, o hijab, è un argomento molto dibattuto, che spesso torna alla ribalta quando qualche paese europeo ne propone il ban.

Partiamo dal presupposto che tali proposte di legge sono discriminatorie e sovra-determinanti; essi nascono, oltre che da un impeto islamofobico, dalla necessità di stabilire che l’Islam riduce la donna a mero oggetto per l’uomo, senza se e senza ma.

Ma non è l’Islam a farlo: è l’uomo, inteso come essere umano, i cui comportamenti sono avallati da una società ancora troppo intrisa di patriarcato. E il patriarcato non ha una bussola, né gps e viaggia a nord, sud, ovest e est del mondo.

Ma è pur vero che a noi “occidentali” sembra che gli uomini musulmani siano solo ed esclusivamente maschilisti, per niente disposti a rivedere le loro posizioni o a mettere in discussione quel che gli è stato insegnato fin da bambini. E lo stesso vale per le donne, spesso dipinte come totalmente succubi e incapaci di agire contro il volere di una società che le schiaccia.

Eppure abbiamo il recente esempio dell’Iran, in cui le proteste sono partite dalle donne, donne che, appunto, si sono tolte il velo pubblicamente, dopo che una loro connazionale era stata arrestata ed è morta -probabilmente a causa delle percosse- perché indossava “impropriamente” il velo.

Per quanto riguarda gli uomini, riporto un’esperienza di vita vissuta; il mio compagno, siriano e musulmano, non ha mai nemmeno accennato al fatto che io mi debba convertire all’Islam per stare con lui. Perché anche quello è un falso mito, poiché agli uomini musulmani è permesso di sposare donne che appartengono alla “Gente del Libro”, ovvero le tre religioni abramitiche che si basano su testi rivelati.

Ma qual è, allora, il problema -a parer mio- delle donne convertite che, invece di sostenere come alleate le battaglie che riguardano il velo, ne fanno una sorta di appropriazione culturale?

Innanzitutto credo che la battaglia che possiamo far nostra, sia quella della libertà di scelta: le donne musulmane devono poter scegliere di indossare ciò che le fa sentire a loro agio, che sia il hijab, il niqab oppure nulla.

Questo perché penso che la religione, innanzitutto, sia un fatto intimo: l’Islam prevede un rapporto diretto tra il credente e Allah, non mediato da figure ecclesiali. Pensiamo al perdono; non c’è bisogno di confessarsi davanti ad un prete per ottenere il perdono di Dio, ma è un dialogo diretto che avviene, tramite la preghiera, tra Allah e il credente.

Si tratta sempre di spiritualità vs. istituzione, che spesso sono in contrasto l’una con l’altra.

Posso dire di aver incontrato un numero abbastanza cospicuo di donne, che si sono raccontate davanti a me senza problemi.

La questione del velo è complicata perché, innanzitutto, viene indicato con sostantivi diversi all’interno del Corano e si presta a molte interpretazioni. Principalmente, insieme all’abbigliamento, è simbolo di modestia.

Ma cosa si intende per modestia? 

“Si tratta infatti di una pudicizia di ampio respiro, fondata principalmente sull’astensione della vista e non solo dalla vista, e anche sulla reticenza di parola, corrispondente a un rispetto di sé e del prossimo che si presta alla comprensione e di più alla condivisione di chi appartiene a una diversa tradizione culturale.” (MODESTIA, PUDICIZIA E RISERBO: LA VIRTÙ ISLAMICA DETTA ḤAYĀʾ, Ida Zilio-Grandi)

Si badi bene che, per quanto poco se ne parli, non riguarda solo la donna, ma anche l’abbigliamento dell’uomo e i suoi atteggiamenti. 

Ho incontrato donne che manifestavano la loro modestia, pur non indossando il velo, negli atteggiamenti e nelle parole.

Ho amiche che preferiscono indossare il velo quando, invece, si trovano in un safe-space, ovvero uno spazio sicuro in cui sanno che non saranno oggetto di sguardi sprezzanti o diffidenti, o di domande inopportune.

Una mia cara amica, di origini bengalesi ma cresciuta in UK, non ha indossato il velo fino all’età adulta, perché non lo riteneva necessario. 

Lo ha fatto un giorno, per caso e per lavoro, trovandosi in un campo profughi in Grecia, non voleva mancare di rispetto ai fratelli e sorelle musulmani nel campo. Mi ha confidato che, nel momento in cui ha indossato il velo, si è sentita diversa, protetta e allo stesso tempo è stato come se un tassello della sua anima fosse tornato al suo posto. Da allora, non ha mai smesso di indossarlo.

Per alcun* attivist* che ho conosciuto in passato, il velo è esclusivamente un atto politico; un modo per rivendicare il proprio far parte di una minoranza discriminata; questa è la parte che mi lascia più perplessa. Sappiamo che in Italia il razzismo è molto diffuso e che più del hijab indosso, conta il colore della pelle e contano le origini. Quando una ragazza che porta il velo, ha il privilegio di avere la pelle bianca e di parlare perfettamente italiano, ammettiamolo: non verrà mai trattata come una ragazza dalla pelle un po’ più scura e dall’italiano un po’ insicuro, o con un leggero accento, e che magari ha un nome “impronunciabile”.

Dovremmo, come attivist*, fare un passo indietro e ascoltare le persone che, invece, sono nate musulmane in un paese musulmano in cui, spesso, non c’è una libera scelta, o almeno non ovunque. Penso alla Siria, che forse è la realtà che, per contatto, conosco un po’ meglio: vi sono zone rurali in cui c’è un controllo più ferreo e il velo deve essere indossato, se non addirittura in niqab. Zone in cui, per altro, l’Isis o altre milizie come Jaysh al-Islam hanno lasciato il loro segno.

Queste ragazze, una volta arrivate in Europa, si trovano finalmente a decidere se provare, almeno, a togliere il velo. S., una mia amica siriana incontrata a Chios, è riuscita a togliersi il velo dopo anni che si trovava in Europa, dopo essersi separata dal marito. Eppure è rimasta musulmana.

G., invece, sensibile e devota alla famiglia, il velo non lo toglierebbe mai, perché la fa sentire vicina a Dio

Sono cose che, a mio avviso, chi si converte in un paese in cui l’Islam non è usanza e tradizione da sempre, potrebbe faticare a capire.

Sono queste le donne che portano avanti da anni lotte, prima interiori e poi “pubbliche”, per decidere liberamente cosa fare.

Perché, per loro, con la pelle più scura e quando ancora non padroneggiano la lingua del paese in cui si trovano, il velo è un marchio che crea diffidenza, insulti negli autobus e persino percosse, nel peggiore dei casi.

C’è chi lotta con la famiglia per liberarcene e non perdere l’accettazione dei propri genitori e parenti, e chi invece lotta con la società, per poter indossare un capo di abbigliamento che le fa sentire protette e legate a Dio.

Ecco, noi dovremmo ascoltare loro, le loro battaglie, accompagnarle qualunque sia la loro scelta ed essere un megafono per la loro voce.

La nostra battaglia di attivist* bianch* e privilegiat* dovrebbe essere quella di appoggiare la libera scelta per loro e per tutt*. 

Senza giudizio anche nei confronti di chi indossa il velo solo in alcuni momenti e lo toglie quando e dove non si sente al sicuro. 

Così come qualsiasi donna dovrebbe essere libera di indossare una minigonna o vestiti da uomo, senza essere etichettata come puttana o come suora.

Il punto focale, quindi, della battaglia del velo, è il fatto che in Europa non ci si ritrova a rischiare la vita (come abbiamo visto succedere in Iran, per esempio) se non si indossa il velo.

Questo non significa, appunto, non appoggiare le istanze delle ragazze che non vogliono indossarlo. Ci sono però anche donne che invece, dopo averlo tolto, a distanza di anni lo hanno indossato di nuovo. Altre che continuano a indossarlo, toglierlo e re-indossarlo.

Noi dovremmo imparare a guardare a queste dinamiche senza giudizio e, per noi, intendo attivist* nat* in Europa, che non abbiamo di fatto vissuto sulla nostra pelle questo problema, per le strade delle nostre città, o tra i muri di casa nostra.

Dovremmo fare un passo indietro, forse, e lasciar parlare chi questo problema lo vive veramente sulla sua pelle.

Pelle; un’altra parola chiave, forse.

Ho sempre avuto l’impressione che una ragazza con il velo, ma con la pelle chiara, subisca sicuramente meno pressioni di una ragazza musulmana con la pelle ambrata.

Abbiamo dei privilegi ed è giusto utilizzarli per sostenere le battaglie di chi è oppresso.

Il problema di molta parte dell’attivismo, però, sta nell’appropriazione e nel voler far cose “audaci” per mettersi in mostra e acchiappare like, svuotando i gesti di tutto ciò che poteva essere simbolico o utile alla lotta.

Un passo indietro, dunque.

E più che di gesti eclatanti da parte delle attiviste europee, credo che le attiviste e gli attivisti dei paesi musulmani abbiano bisogno di essere ascoltat*. E dopo averli ascoltati, possiamo allora usare il nostro privilegio per amplificare le loro necessità.

Altrimenti rischiamo di cadere nel compiere gesti che danno visibilità a chi li compie, togliendoli alla causa stessa. E non è ciò che vogliamo. 

di Elena De Piccoli

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