Conflitto Israele Palestina: La Pace, una parola così piccola, ma così potente.

Ogni qual volta si provi a parlare di pace tra Palestina e Israele, si scatenano le ire funeste da entrambe le parti, ma soprattutto da parte dei sostenitori arabi.

Questo non sarà un saggio storico, ma l’opinione di una persona che ha studiato entrambe le culture e le storie per 13 anni e che ha visitato più volte quei luoghi.

Ma è anche l’opinione di una persona che ha vissuto due anni con i profughi provenienti anche dalla Palestina.

Parlare di pace non vuol dire semplicemente interrompere il conflitto e lasciare le cose come sono; questo sarebbe impensabile, in virtù innanzitutto di quanto è stato ridotto il territorio palestinese rispetto alle disposizioni dell ‘ONU alla creazione dello Stato di Israele. Ma soprattutto in virtù di quanto hanno subito e sofferto i palestinesi della West Bank e di Gaza, insieme a coloro che non hanno diritto di tornare nelle loro case, oramai occupate, e che spesso portano al collo la chiave di casa dei loro genitori o nonni, in memoria della loro provenienza.

Gaza è una prigione a cielo aperto; è Israele che decide quando dare acqua ed elettricità, è Israele a decidere fino a dove possono spingersi i pescatori in mare, è Israele ad avere le armi più potenti tra le due parti. Inoltre, scorrendo semplicemente Instagram, è frequente vedere scene di soldati delle IDF che vessano i palestinesi che vanno a pregare alla Spianata delle Moschee o che vanno al mercato arabo della Città Vecchia di Gerusalemme.

È evidente che il conflitto è impari; i palestinesi, intifada a parte, non hanno di che difendersi.

Qualcuno chiamerà in causa Hamas, che al tempo vinse le elezioni, ma che in seguito si è rivelato un gruppo piuttosto militarizzato, il cui interesse è più volto a distruggere Israele piuttosto che ascoltare i bisogno dei gazawi.

Più volte, mentre ero in Grecia, i migranti palestinesi hanno sottolineato di non voler essere associati ad Hamas

C’è chi sostiene che il fine giustifica i mezzi, per cui ben venga Hamas se colpisce Israele criminale.

Ed è qui il punto di svolta. Tanto Hamas è criminale quando Israele. Sì, ma lo è il suo governo. Così come Hamas non rappresenta i palestinesi, lo Stato di Israele, per quanto riguarda il conflitto, non rappresenta del tutto i suoi cittadini.

Molte sono infatti le associazioni nate con lo scopo di promuovere la convivenza tra le due popolazioni. 

I civili che muoiono, che vengono rapiti o violentati sono civili, da una parte o dall’altra del confine. E sono loro a rimetterci. Sono loro a morire, israeliani e palestinesi, mentre le testate giornalistiche discutono su chi ha lanciato un razzo (piccolo inciso: un solo razzo non ha la potenza di distruggere un intero ospedale).

Parlare di pace vuol dire sì deporre le armi, ma anche mettersi a tavolino e ritornare al punto in cui si era stati più vicini alla risoluzione del conflitto, gli accordi di Oslo del 1993, tra Rabin e Arafat. Deporre le armi e armarsi di dialogo.

Deporre le armi non per lasciare le cose come stanno e non ridare ai palestinesi ciò che è loro diritto.

Ma bisogna, a distanza di quasi 80 anni dalla fondazione dello Stato di Israele, riconoscere che non è possibile cacciare le persone che vi sono nate e che non hanno scelto questo conflitto. Ci si sono trovate nel bel mezzo, come in una tempesta da cui non si sa come uscire, se non aspettando che finisca.

Vi sono molti arabi che sostengono che gli ebrei dovrebbero tornare nei paesi dei loro antenati, cosa insensata a parer mio, perché sono stati i loro antenati a scegliere per loro. A distanza di quasi 80 anni ci sono israeliani che non desiderano della guerra, che disertano , che si chiedono “ma perché l’esercito si prende tre anni della mia vita, per una guerra in cui non credo?”

Pace, una parola così piccola, ma così potente da scatenare ire e speranze.

È il momento però di ragionare con la testa e non con la pancia, perché dopotutto si sta parlando di vite, da una parte e dall’altra, e dobbiamo ricordare che nessuna vita dovrebbe essere una pedina nelle mani del potere. Di nessun potere. 

di Elena De Piccoli

Elena De Piccoli

Sono nata in provincia di Venezia nel 1985. Mi sono laureata in Letteratura Italiana, in Filologia e Critica della Letteratura, in Culture e Lingue Medio Orientali e Nord Africane (Ebraico e Arabo) e sto conseguendo una Laurea Magistrale in Scienze delle Religioni. Da più di dieci anni mi occupo di tematiche relative all’intersezionalità, i diritti umani, le minoranze discriminate, soprattutto per quando riguarda i paesi nordafricani e asiatici (dell’area definita Medio Oriente), ma non solo. Ho collaborato alla produzione del documentario Allah Loves Equality, partecipando alle riprese, esperienza da cui è nato poi l’omonimo libro. Ho collaborato e collaboro con diverse realtà italiane legate al femminismo e ai diritti della comunità lgbt+. Sono molto vicina anche alla questione dei migranti. Ho collaborato con volontari e attivisti da tutto il mondo, ma in modo particolare collaboro con Stay Human odv. Ho infatti coordinato nel 2019 per la stessa ong una missione a Chios, per poi rimanere per quasi due anni in Grecia con i rifugiati, sia per portare loro aiuto che per documentare la situazione. Mi occupo in particolare di attivismo per i diritti delle donne, per Siria, Palestina, Iran e per i diritti di migranti e rifugiati. Il mio occuparmi di religioni non è legato tanto alla spiritualità, quanto alla necessità di comprendere le diversità di ciascuno, oltre che al desiderio -per ogni religione- di creare un ponte che aiuti le vecchie e le nuove generazioni a decostruire pensieri e credenze divisive, radicate in un passato che oramai non dovrebbe avere più spazio nella società odierna. Inoltre, credo che sia fondamentale per chi ha un privilegio, usarlo per combattere le ingiustizie sociali, mettendo in campo le proprie competenze e esperienze.