El Bosque, o meglio, quello che ne rimane, è un piccolo villaggio di pescatori in riva all’oceano Atlantico, nella penisola dello Yucatàn nello stato del Tabasco, oltre la linea del Tropico del Cancro. Un piccolo promontorio circondato dall’oceano.
Ora la metà di questo paesello è un fantasma sgretolato tra sabbia e mare sulla foce del rio Grijalva.
Arriviamo con la Carovana Internazionale El Sur Resiste in una tarda, afosa mattinata di fine aprile attraverso una strada erosa dalle onde fino a renderla impercorribile. È stata ricostruita inutilmente due volte. Il mare vince sempre.
L’atmosfera è inquietante.
L’aria grigia e umida, grandi albatri neri nel cielo, un canto. Rimbomba ovunque un grido che vorrebbe essere una preghiera, ma che in realtà trasmette l’idea di una fede minacciosa. Il canto proviene da una chiesa evangelica, l’unico tempio in cui può riunirsi la comunità. Cantano insieme anzi urlano una vecchia canzone in voga negli anni ‘70, intitolata “Che sarà?”.
Il testo racconta la nostalgia di un ragazzo dopo l’abbandono del proprio paese alla ricerca di un altrove inesistente dove rincorrere sogni.
Parliamo, al di là della rete di recinzione, con dei bambini che partecipano al rito. Pochi vivono a El Bosque, alcuni si sono spostati con la famiglia a La Victoria, ma ritornano il fine settimana per partecipare insieme, alle cerimonie. Un modo per cucire gli strappi subiti.
Questa volta è il villaggio che ha abbandonato i suoi abitanti trasformando le loro vite in un incubo.
Lungo la riva dell’oceano si snoda una lunga via di case diroccate, una quarantina, sdentate orrendamente sul mare.
L’acqua entra nelle stanze piastrellate, nelle aule della scuola coi disegni colorati alle pareti, in tutte quelle che: “Questa era la mia casa” dicono gli abitanti che ci accompagnano nel nostro assurdo pellegrinaggio.
Gli albatri si posano sui rami di alberi morti che affiorano dal mare.
Un paesaggio spettrale e affascinante.
La spiaggia è un filo di sabbia arso, della pineta neanche l’ombra.
La responsabilità di questa distruzione sta nel cambiamento climatico, problema mondiale del nostro tempo, per il quale le popolazioni indigene del Messico combattono da sempre con tanta forza.
Il disastro è cominciato col disboscamento delle mangrovie ed è proseguito con le precipitazioni e gli uragani diventati sempre più intensi.
Con l’innalzamento delle temperature il livello delle acque è salito con velocità costante travolgendo la metà del paese e una spiaggia bianca enorme e bellissima, circondata da una folta pineta dove si poteva giocare e pescare.
Si calcola che il mare si sia divorato dal 2005, dai duecento ai cinquecento metri di terra.
Gli eventi memorabili di questa catastrofe hanno delle date:
Nel 2007, in soli quindici minuti, venne giù tanta acqua che avrebbe riempito lo stadio di Città del Messico.
Tra il 2005 e il 2010, le immagini satellitari mostrano un’erosione della spiaggia di un centinaio di metri. Nel 2019 il mare si rubò la prima fila di case del paese.
Da allora finì sott’acqua quasi l’intero paesino, comprese una delle due chiese, la palestra e la scuola.
Gli abitanti ricordano e ci raccontano ciò che era la loro vita come cantastorie tristi. – Questa era la mia casa, qui dormivano i miei figli, qui cucinavamo per le feste, questa era la scuola, qui pregavamo e qui siamo rimasti fino a che dalle finestre ha cominciato a entrare l’acqua, non più l’aria -.
Qualcuna delle donne ci sfoglia le testimonianze fotografiche dal prima dell’inondazione al poi.
– Abbiamo portato via le nostre cose, abbiamo lasciato le case, ma le case sono sempre le nostre case e ciò che rappresentano per la nostra vita. Siamo rimasti senza niente, sperando in un aiuto che non avrebbe potuto restituire mai completamente le nostre esistenze -.
Aiuto che non è stato minimamente sufficiente.
Resistono ed esistono in una lotta senza sosta alla ricerca di una nuova quotidianità.
Che sarà che sarà che sarà, che sarà della mia vita che sarà…
di Grazia Satta